Vent'anni d'opposizione al restauro del Cenacolo vinciano
I Vizi Capitali - The Seven Deadly Sins

Dipinti e disegni in mostra

 


Mario Donizetti

 

LETTERA A HEGEL

Argomenti di Estetica

 

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Mario Donizetti è considerato fra i massimi esponenti dell'arte figurativa e tra i maggiori ritrattisti della pittura del nostro tempo. Ha pubblicato nel 1992  "Perchè Figurativo", nel 1995 "Razionalità della Fede e della Bellezza", nel 1996 "Lettera a Parmenide", nel 1997 "Lettera a Platone", nel 1999 "Argomenti di estetica".
Time magazine ha pubblicato in copertina alcuni suoi ritratti fra i quali il ritratto di Papa Giovanni Paolo II (1985) oggi alla National Portrait Gallery, Smithsonian Institution di Washington.
Nel 1983 ha ricevuto dalla "Pinacoteca Ambrosiana" di Milano l'onore di un'esposizione antologica di dipinti e disegni nelle Sale del Museo. Una sua crocifissione è fra le opere esposte al Museo Tesoro della Basilica di
S. Pietro in Vaticano. Collabora a giornali e riviste con saggi di estetica e diagnostica del restauro.

 

 

LETTERA A HEGEL

 

 

hegel-s.jpg (9333 byte)Egregio Professore,

ho sottomano per una rilettura due "tomi" sui quali è stampata la Sua "Estetica". Credo di essere uno dei destinatari delle Sue lezioni e oggi Le scrivo perché sono venuto a conoscenza della prova scientifica che la Sua Estetica è, come io avevo sempre dubitato, davvero un castello in aria.

Credo che nella introduzione alla Sua ponderosa opera vi sia già l’errore preso a fondamento della Sua dottrina. Fondamento che esposto mirabilmente nella Sua "Scienza della Logica" delibera che "il finito" non è vero essere: Lei decide di farlo scomparire nell’infinito dicendo: "ciò che è, è soltanto l’infinito" (Hegel, Scienza della logica, Laterza 1996, pag. 139). Lei decide senza convincere che le cose finite come tali sono una "presenza soltanto illusoria" (Hegel, Estetica, Einaudi 1976, pag. 57).

Questa Sua visione è sconvolgente. Non credo che "finiti" siano solamente gli oggetti che noi percepiamo e che per puro antropocentrismo riteniamo orbitanti intorno a noi. Finito è anche il nostro essere razionale.

E se ciò che è razionale è reale, come Lei dice, sarà reale e non solo illusorio chi razionalizza quel reale. E allora quando il razionale pensa che il finito è reale e non è una presenza illusoria, sarà illusorio quell’infinito che fugge dalla razionalità diventando incomprensibile e che Lei invece ritiene vero "essere".

Ella pensava che gli esseri fisici viventi fossero "finito" nel significato opposto a "infinito".

Lei crede che la totalità non sia "infinito" perché pensa che ogni essere "finito" sia tale grazie al suo "opposto" che come opposto alle cose finite non può essere ridotto ad una somma finita.

Ma questa creazione a tavolino della verità convince solo i sognatori. Infatti io potrei al Suo stesso modo inventarmi l’ente "opposto" di un’opera d’arte, sottacendo che l’opposto è la mancanza dell’opera d’arte ma indicando questa mancanza con un nome che dia l’illusione della sua esistenza come ente opposto all’opera d’arte e così l’opera d’arte sarebbe tale grazie all’esistenza del rapporto con il suo opposto. Ma è evidente a tutti che l’opposto dell’opera d’arte è la semplice mancanza dell’opera d’arte ossia un ente che nella realtà non c’è. Il che significa anche che ogni opera in quanto voluta dalla finalità progettuale è opera d’arte e che solo per gradi le opere sono somme o piccole, ma le piccole e le grandi non sono fra loro in opposizione. Così è successo a quel Suo "infinito" che non c’è ma avendogli dato un nome sembra che ci sia.

Lei mi obbietterà ancora e sempre che la totalità delle cose finite non può essere infinito, ma totalità finita. Ma allora io Le chiedo come una totalità finita possa scomparire in un "infinito" che nel rifiutare d’essere totalità pretende per sé una natura diversa dal finito altrimenti sarebbe la stessa totalità. Questo infinito definito da Lei unica realtà, pretende una diversità di natura rispetto all’infinito numerico. Ma il "finito" ha coscienza sia di sé che dell’infinito numerico perché ne fa parte. La personale esistenza degli esseri finiti è unica e irripetibile quindi la loro semplice e sola esistenza li fa realmente e non illusoriamente "essere". Nella sua coscienza di sé il finito poi determina da se stesso il proprio limite. Per poter avere l’idea d’essere finito, il finito necessariamente ha l’idea dell’infinito (come totalità). Dunque possiede la coscienza dell’infinito e perciò ne fa razionalmente parte. Lei sostiene senza limitazione, e per questo erroneamente, che ciò che è razionale è reale e allora il nostro essere finito dovrebbe essere reale in quanto razionale, e se uno dei due deve scomparire per forza, dovrà scomparire quell’infinito che Lei immagina, perché questi manca di coscienza di sé ed è quindi fuori da ogni razionalità. Così il Suo infinito ha in questa mancanza in quanto è una mancanza, il limite che lo annulla come infinito e lo riporta ad essere solamente la totalità del finito e allora ciò che "è" è soltanto il finito che costituisce la totalità.

Professore, quello che mi sembra debba scomparire è l’illusione del "puro" infinito, il puro di ogni essere e non essere, la pura arte e i "bisogni supremi" perché quando si tolgono i vituperati "accidenti" alla realtà, della realtà non rimane nulla e infatti non vi è nell’encefalo nessuna risposta neuronale quando non si percepisca un’immagine impura, relativa, sensibile, finita e questo lo vedrà alla fine di questa mia lettera e non mi dica che l’intelletto pensa anche ciò che i sensi non percepiscono perché è scientificamente non vero. Infatti "se viene modificata sperimentalmente la percezione sensoriale di uno stimolo ambientale si modifica la struttura della regione encefalica deputata alla sua integrazione. Un esempio è di G. Moruzzi: capovolgendo la percezione visiva ponendo davanti a un occhio, fin dalla nascita, una lente permanente che ruoti le immagini di 180° si ottiene una strutturazione della corteccia occipitale interessata invertita rispetto alla controlaterale" (Vittorino Andreoli La norma e la scelta - Mondadori 1984, pag. 25).

Questo fatto dimostra che la forma struttura del cervello dipende dalle stimolazioni sensoriali del mondo esterno. E dato che la razionalità, ossia la funzione del cervello dipende dalla sua struttura, fa necessità che la razionalità dipenda dagli stimoli del mondo esterno e comunque in simultaneità con il mondo esterno.

Si comprende come la forma struttura di un piede sia simultanea alla finalità della sua funzione. Se per artificio si potesse sostituire l’osso astragalo del piede con l’osso sfenoide del naso, il piede perderebbe la sua funzione logica che è logicamente il camminare.

E allora cervello e intelletto debbono necessariamente avere lo stesso rapporto come il piede e il camminare. La logica del pensiero verrebbe modificata o impedita se la struttura del cervello venisse modificata o impedita o capovolta come per la funzione del piede. Così la logica del pensiero ossia il pensare è la funzione logica del cervello come il camminare è la funzione logica del piede. Ne consegue che se il pensare dipende dalla struttura del cervello e questa dalle percezioni sensoriali, fra il pensare la realtà ed il percepire la realtà non può esserci contraddizione. Fra la realtà razionale o encefalica e la realtà esterna all’encefalo è necessario non vi sia alcuna differenza di contenuto.

E però questo non significa che l’idea che noi abbiamo di un oggetto rappresenti tutta la realtà dell’oggetto.

La realtà è necessariamente maggiore per quantità della sua idea encefalica. L’idea di realtà coglie della realtà solo ciò che le è di interesse progettualmente vitale. Questo cogliere nella realtà il nostro utile progettuale è ciò che evolve la realtà per l’intervento successivo del nostro progetto. Se non fosse così la realtà sarebbe immobile.

Il meccanismo mi sembra questo: alcune parti di realtà mediante i sensi passano rappresentativamente e finalisticamente nell’encefalo e si stabilizzano nella memoria. L’artista elabora con questi dati una forma nuova ottenendo l’istituzione di un rapporto di analogia della finalità della forma artistica con la finalità della forma della natura.

Purtroppo questa analogia delle forme dell’arte, chiamata "somiglianza" alle forme della natura è l’origine di un errore: quello di pensare che la semplice copia della forma naturale (se mai fosse possibile una tale copia) sia il contenuto dell’arte. Ma il termine "somiglianza" non equivale al termine "analogia". Il primo è riferito per l’imprudenza della ragione alle sole forme e non alle loro funzioni. E poiché ogni forma è unica e irripetibile perché una forma identica ad un’altra avrebbe una funzione identica ad un’altra, quindi inutile all’economia della natura, fa necessità che la "somiglianza" fra forme sia dovuta ad una imprudenza della ragione come ho detto. Il concetto di analogia invece si fonda sulla forma della finalità e non sulla illusione della somiglianza. Lei mi chiederà in che cosa consista formalmente nell’opera d’arte questa finalità. Visto che Le scrivo per poterLe dire che solo la forma è contenuto, Le risponderò che la finalità o progetto dell’artista si concretizza nella forma artistica mediante esclusione di elementi formali della natura e l’inclusione di altri elementi formali della natura. I primi, esclusi perché non adeguati al progetto dell’artista, i secondi, utilizzati per evidenziarlo. Questa selezione della forma naturale trasposta nella forma artistica si evidenzia mediante la comparazione della forma artistica con la forma della realtà. La differenza fra la forma artistica e quella genetica è concretamente formale vale a dire concretamente finalizzata. In questo senso l’"espressionismo" moderno ha colto nel segno questa verità, peccando però per l’esclusione eccessiva e per eccessiva inclusione di forme finalizzate. Le immagini, esasperate finalisticamente, perdono di credibilità. Voglio dire che la proposta dell’artista espressionista assume un valore impositivo vincolante, insistente. La proposta dell’artista, per non essere fastidiosa ma accettata dal fruitore, deve essere umile anche se ferma, disponibile anche se intransigente, interpretabile anche se univoca.

In definitiva deve essere come la natura: aperta progettualmente ma sotto legge.

Essendo l’opera d’arte una parte di natura, essendo costitutiva del processo evolutivo di un essere vivente, principia dal trasmesso geneticamente. La forma progettuale o artistica non può pretendere una revisione né una negazione del genetico ma proporre solo una evoluzione del genetico. D’altro canto, la sola geometria fisica degli oggetti naturali trasposta nell’opera tecnica, ossia una mera copia, ridurrebbe l’opera alla passività. Ma questo è comunque impossibile che avvenga perché un doppio, ossia una "copia", è impossibile.

Così con la sua finalità la forma artistica acquista analogia alla forma reale. Assume forma progettuale senza separarsi dalla forma naturale.

(Un esempio può rendere chiara la distinzione fra analogia e somiglianza: fra una clessidra e un orologio da polso non vi è nessuna comunanza di forma o somiglianza geometrica, né di funzione, ma vi è la stessa finalità e diciamo allora che i due oggetti sono analoghi. Con evidenza si vede che "analogia" e "somiglianza" sono due enti distinti. E questa analogia è il contenuto delle forme artistiche e non la somiglianza alla forma naturale, che vorrebbe dire fondare il contenuto dell’arte su una illusione dataci dall’imprudenza della ragione).

Il contenuto artistico consiste allora nella proposta di una forma in rapporto di analogia con la finalità della natura. E il peculiare dell’arte è proprio questo: che produce una forma sintetica nuova con parti analitiche oggettive di forma anteriore al progetto dell’artista e questa nuova forma nell’essere analogica di una forma reale può anche sembrare somigliante a quella. E ancora non dobbiamo pensare, come ha pensato Lei, che la finalità della forma artistica possa separarsi dalla finalità della forma della realtà. Non dobbiamo pensare che la finalità dell’arte sia la tematica degli "interessi dello spirito" di quello spirito che per essere "unica realtà" come dice Lei annullerebbe la forma e quindi anche la forma dell’arte.

La "somiglianza" illusoria del resto non inficia il contenuto analogico dell’arte. Non è possibile ridurre a opposti l’efficienza che muove, e ciò che viene mosso, solamente in odio alla illusione della somiglianza, impossibile da evitare. Infatti nella forma di un essere, sia genetico che artistico vi è sempre qualcosa che compete solo parzialmente a quell’essere, dico "parzialmente" e non "accidentalmente" come vorrebbe Lei. Quando si possiede un asino si possiedono anche le sue orecchie e i peli delle sue orecchie. Voglio dire che l’asino è tutte le sue parti anche quelle che Lei definisce accidentali. Mi sembra che non sia possibile possedere il "contenuto" dell’asino, cioè il "puro" asino, un asino "rigenerato dallo spirito" (Hegel, Introduzione all’Estetica). Insomma non mi sembra possibile pensare alla "specie" dell’asino senza pensare a tutti gli asini così che "l’idea" di specie asinina mi appare semplicemente come una moltitudine di idee ognuna riferita ad un asino vero. Mi sembra che il contenuto di una forma sia tutti i suoi "accidenti" e quello che vale per un asino vale anche per l’arte. Così il contenuto dell’opera d’arte è la sua forma finalizzata, proprio quella forma che Lei ritiene accidentale come i peli delle orecchie dell’asino.

Supponga che per motivi sconosciuti alcuni asini nascano senza peli. Lei dirà subito che sono asini lo stesso senza l’accidente dei peli. Supponga poi che nascano animali anche senza orecchie, Lei mi dirà che sono asini lo stesso. Supponga che nascano animali con le corna, con sei gambe, due code, Lei comincerebbe ad avere difficoltà ad ammettere che sono asini lo stesso. Quando poi un animale non avesse tutti gli "accidenti" di un asino ma ne avesse altri, Lei si troverebbe nella necessità di coniare un nuovo termine per designare il contenuto "essenziale" del nuovo animale, ammettendo così implicitamente di aver fatto dipendere il suo concetto di contenuto o di "specie" asinina dagli "accidenti" che certi animali hanno in comune per analogia con altri. Ammettendo, e questo per Lei è grave, che il contenuto non c’è e se c’è si identifica negli accidenti finalizzati ad un progetto personale e in questa finalità per un asino e per ogni essere vivente che abbia peli è essenziale anche l’ultimo pelo perché anche un pelo è come un’altra parte, come il fegato, il cervello o altre parti. E siccome è giusto che io La incalzi come mi ha incalzato Lei, Le ripeto: se l’idea di opera d’arte si riferisce al contenuto dell’opera d’arte così come l’idea di asino si riferisce al contenuto dell’asino e il contenuto dell’asino come è evidente è la stessa forma finalizzata dell’asino, il contenuto dell’opera d’arte è la sua stessa forma finalizzata (e non può esserci forma non finalizzata) che invece Lei definisce come "accidentale". Così l’idea astratta di asino. L’idea metafisica, l’idea di "specie" che Platone riteneva anteriore a qualsiasi asino e che Lei ritiene vera sostanza di contro alla "bassezza" degli "accidenti" e data a prescindere dagli "accidenti", bene, quell’idea non esiste, né possiamo possedere nella stalla un simile asino senza i suoi essenziali accidenti. E allora anche l’arte pura ossia senza la "zavorra" degli accidenti non esiste ma solamente esistono oggetti più o meno perfetti nella forma ossia adeguati nella forma al loro scopo. L’idea metafisica di oggetto mi sembra sia un riferimento all’utilizzo progettuale degli accidenti di un oggetto. La nostra progettualità ritiene, e definisce "accidentale" nell’oggetto ciò che è ritenuto inutile e definisce sostanziale ciò che è ritenuto utile. Ma queste definizioni riguardano le funzioni che noi assegniamo agli oggetti e non sono proprietà degli oggetti quantunque gli oggetti consentano le nostre definizioni. E allora l’idea metafisica di "arte" mi appare in realtà come riferita all’oggetto quando sia adeguato al nostro progetto e non alla "pura sostanza" metafisica di "specie" artistica. Così l’arte "pura" mi appare come il prodotto di un gioco d’azzardo perché alla costruzione del concetto "metafisico" di arte è necessario anche il più "accidentale" dei segni formali che costituiscono l’oggetto artistico così come è necessario al concetto metafisico di asino anche l’ultimo pelo di un asino vero.

Caro Professore, anche l’idea di "essere" è derivata da un essere vero, ossia dai suoi "accidenti" quindi dalla sua "carne" tanto vituperata da Lei.

Già Parmenide aveva tentato una definizione del concetto di "essere" e per prima dovette ridurlo all’"uno" ma come gli rispose Platone l’unità di un essere reale è impossibile poiché dalla realtà bisognerebbe escludere le sue "parti" che sono una moltitudine e una moltitudine non può costituire l’"uno" ossia l’unità dell’"essere" e così nessun essere è possibile nel concetto che non sia derivato dalle sue parti, ossia dai suoi accidenti. Ma il fatto straordinario è che Ella, dopo più di duemila anni, non abbia cercato la verità e si sia limitato a plagiare i pensatori dell’"essere".

Io vedo che, tolta la forma, il Suo cosiddetto contenuto scompare, tolti gli "accidenti" l’"essere" non c’è. Infatti fra la forma della realtà, ossia fra la forma "accidentale" e la sua rappresentazione "sostanziale" artistica vi è solamente il nostro utilizzo progettuale degli accidenti.

Così resta che fra le cose e la idea della loro sostanza non c’è altro se non l’utilizzo che facciamo noi degli "accidenti". Così ciò che è reale, sia nell’arte che nella natura genetica, è solo la forma che Lei definisce "accidentalità temporale" (Hegel, op. cit. pag. 107). Quindi il vero contenuto è quello che Lei chiama "accidentalità" che secondo Lei sarebbe in opposizione al contenuto ideale, che a me sembra invece un semplice abbaglio. Recentemente il semiologo Umberto Eco, appassionato di problemi della conoscenza, ammetteva la difficoltà a definire la "specie" di un animale "strano" chiamato "ornitorinco". Questa difficoltà è dovuta proprio al vizio idealista che pensa il reale come accidentale e posteriore all’ideale. La classificazione del nuovo animale secondo conoscenze già acquisite su altri animali potrebbe anche essere impossibile, il che esigerebbe una nuova classificazione e questo perché la classificazione ideale è posteriore all’animale reale come si è detto per l’asino.

Tutto il ciarpame "puro" dovrebbe scomparire dal nostro linguaggio. Ciò che noi chiamiamo "essere" è solo fisicamente determinato e "impuro" non sotto "specie" ma unico e irripetibile.

I cosiddetti valori assoluti o idealmente "puri" mi sembrano una convenzione verbale utile alla pratica comunicazione di valori non assoluti e realmente "impuri".

Se non si ricorresse alla finzione convenzionata dell’esistenza di un punto puro e si dovesse ubicare un segno di matita in piazza S.Pietro, bisognerebbe in ogni caso precisare l’ubicazione del segno di matita. Ma l’ubicazione del segno reale di matita in piazza S.Pietro è possibile solamente se all’ubicazione si fa corrispondere per finzione un punto puro. Ma anche un reale segno di matita è divisibile in tanti segni reali e quale di questi segni sia il prescelto non esime da una ulteriore precisazione di un punto dei tanti che costituiscono quel segno. Così la ubicazione reale esige la finzione del punto puro, che si sa bene "impuro" ossia reale.

La realtà di questo inesistente, consiste nella esistenza della sua finzione. La forma reale è divisibile all’infinito ma il punto puro esige la sua indivisibilità. Così anche il punto puro è secondo la sua ottica quell’"opposto" all’impuro che per essere opposto a ciò che esiste, non esiste, salvo il nome che lo fa sembrare esistente.

Lei si chiederà come la mente abbia bisogno di questa finzione per comunicare il reale fisico oggettivo e Lei potrà secondo me rispondere a se stesso che pur sapendo della divisibilità all’infinito del reale noi eleviamo le sue parti a enti indivisibili perché indivisibile è il loro utilizzo. E quello che conta per noi della realtà è quello che noi progettualmente facciamo della realtà. L’idea progettuale, per analogia, è come quella bugia che la promessa sposa fa presentando il fidanzato alla madre dicendo che è un figliolo puro e religioso mentre sa che è un trasgressivo donnaiolo, ma deve raggiungere il suo scopo. Anche la madre sa la verità ma accetta lo sposo della figlia che avrà così un marito impuro ma avrà un marito. Così l’idea pura o metafisica è la rappresentazione dell’utilità progettuale di ciò che è impuro e fisico.

L’idea di oggetto trascende l’oggetto fisico per piegarlo all’utilità progettuale ma non è anteriore, come vuole ogni buon idealista, bensì posteriore all’oggetto trasceso e non lo tradisce ma lo rappresenta oggettivamente. Quello che fa la promessa sposa per sposarsi realmente, lo facciamo tutti: per poter accettare noi stessi noi ci pensiamo e ci presentiamo a noi stessi con una idea che ci trascende. Nel pensarmi mi "purifico" - Lei direbbe - dai miei "accidenti" altrimenti mi perderei nel loro labirinto infinito. La mia identità è la rappresentazione trascendente di me stesso. Ma quello che mi preme dirLe è questo: la mia identità non è più elevata o nobile rispetto alla mia "carne" come vorrebbe Lei. Ma se dovessi usare il suo linguaggio direi che l’idea che mi trascende è molto più vile del mio corpo perché è la servente del suo padrone che sono io nella mia impurità, divisibilità, deperibilità. Ma dal mio punto di vista il mio corpo non si eleva al di sopra dell’idea che ho del mio corpo e allora la memoria progettuale che io ho di me stesso è quello che Lei chiama "spirito". Questa memoria è lo stesso me stesso finalizzato come la bugia della promessa sposa.

E ancora Lei insiste sulla purezza. Il puro essere e il puro nulla Lei li fa essere lo stesso, ma li ha fatti anche opposti. Lei non gioca con le parole? Dice anche che quando "per mezzo della ragione noi ci solleviamo sopra il temporale, viene inteso che questo accada senz’alcun pregiudizio del finito" (Hegel Scienza della logica, Laterza, pag. 139).

Ma il sollevarci sopra il temporale non è lo stesso che concepire il finito temporale in una condizione infima? Perché inventa gli opposti per poi annullarli nella realtà come se la realtà fosse posteriore agli opposti ossia come se gli opposti fossero causa della realtà? E dato che una cosa non può simultaneamente "essere" un’altra, fa sì che gli "opposti", che sono da Lei considerati tali simultaneamente, non possano poi conciliarsi, pena la loro estinzione. È solamente perché partecipano come diversi e non come opposti ad uno stesso progetto finalistico che costituiscono l’"esserci", altrimenti l’"esserci" non ci sarebbe.

Mi sembra che nella conciliazione l’opposto perda la sua identità e, così, perso nell’"altro", perda la forza di costituire l’unità progettuale e societaria dell’"esserci". L’unità dell’"esserci" è data dalla finalità e perciò gli opposti devono essere solo diversi, nella comune finalità. Mi sembra che il mondo intero sia una società di "diversi" con un solo unico fine.

Gli opposti da "conciliare" mi sembrano solo burattini. Ai nostri giorni sono chiamati filosofi degli equilibristi che sulla scorta della Sua dottrina negano proprio l’esistenza. Negano quell’"esserci" che proprio a rigore della Sua logica è nulla se è dato dalla conciliazione del puro essere e del puro nulla postulati da Lei come identici nulla. "Il puro essere e il puro nulla sono dunque lo stesso", Lei dice, e se nel "conciliarsi" e nel "passare" l’uno nell’altro "ciascuno di essi sparisce nel suo opposto" (Hegel, Scienza della Logica, Laterza 1996, pag. 71), nello sparire, entrambi non fanno emergere l’"esserci" ma fanno sparire nel nulla ciò che già era apparso come nulla. Infatti se l’essere passa (e mi perdoni se non capisco che cosa significhi "passare" ma fingo di capire), se l’essere dunque passa nel nulla diventa, a me sembra, un nulla. E così nel passare l’uno nell’altro non fanno altro, al massimo, che cambiarsi nell’altro lasciando tutto al punto di prima. Ma quello che è, è, e non passa. Lei aveva fantasia da vendere ma non credo sia conveniente acquistare da Lei.

Mi perdoni questa tirata perché Le scrivo come pittore di cose finite e perciò concrete. Le scrivo perché voglio farLe sapere quello che ai Suoi tempi le ricerche scientifiche ancora non avevano scoperto. Oggi le neuroscienze danno la prova che il Suo castello estetico è ridotto a macerie e la profezia della morte dell’arte non sale al cielo..

Infatti si è scoperto che solo l’esperienza "finita" è reale e che l’idea metafisica di infinito si riduce all’esperienza empirica.

Bisogna ammettere che Ella fu affascinato da Emanuele Kant. Ella ritiene necessario "scoprire i primi fondamenti della facoltà dei principi indipendenti dall’esperienza" come dice Kant (Emanuele Kant, Critica del Giudizio, Laterza 1984 pag. 5) detti da Lei "assolutezza della ragione in sé stessa, che ha costituito la svolta della filosofia dell’epoca moderna, questo assoluto punto di partenza va riconosciuto e non deve, essere in essa (nella filosofia Kantiana) confutato" (Hegel, Estetica Einaudi, 1976 pag. 68). Anche se Lei ammette, contrariamente al Kant, che è possibile cogliere il bello nel concetto (Hegel, op. cit., pag. 107). Ella pensò la forma della natura come accidentale o "apprensione soltanto sensibile" (Hegel, op. cit., pag. 45) o "presenza esterna soltanto illusoria" (Hegel, op. cit., pag. 57). Le cose finite per Lei non dovevano essere reali ma parvenze poste "meramente come involucro" (Hegel, op. cit., pag. 62).

E però con prudenza Ella nel suo trattato alterna un colpo al cerchio e uno alla botte. Ho assistito alla bega fra due hegeliani. Uno diceva che Lei batteva il cerchio per far funzionare la botte, e l’altro che Lei batteva la botte per far quadrare il cerchio. Prima infatti Lei ammette che "lo spirito appare sensibilmente in maniera soddisfacente solo nel suo corpo" (Hegel, op. cit., pag. 91) che nel produrre dell’artista "lo spirituale e il sensibile devono essere una cosa sola" (Hegel, op. cit., pag. 49). Poi afferma che il corpo nella rappresentazione artistica "deve essere sottratto ai bisogni di tutto ciò che è solo sensibile e alla finitezza accidentale dell’apparire. In questo modo la forma è purificata, per esprimere in sé il contenuto a lei conforme" (Hegel, op. cit., pag. 91).

Tutto questo Suo menare il can per l’aia ha lo scopo di tenere un piede in due scarpe anche se privilegia la meno calzante. Ed è per questo che i suoi discendenti litigano ancora oggi e forse litigheranno sempre nel tentativo di chiarire se Lei era onesto. Lei scrive ogni due righe che l’arte avendo a suo oggetto peculiare lo spirito, "non può dare l’intuizione di questo mediante gli oggetti particolari della natura come tali, per esempio il sole, la luna, la terra, le stelle ecc. Questi sono certamente esistenze sensibili ma isolate e prese per sé non danno l’intuizione dello spirituale" (Hegel, op. cit., pag. 119).

Nel Suo trattato, ogni due righe vi è "lo spirito che lotta contro la carne" (Hegel, op. cit., pag. 65) vi è "la volontà che ha la sua diretta opposizione nella natura, negli impulsi sensibili" (Hegel, op. cit., pag. 64).

E alla fine il Suo messaggio è comunicato così: "Si può sperare che l’arte s’innalzi e si perfezioni sempre di più, ma la sua forma ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito" (Hegel, op. cit., pag. 120).

Professor Hegel, Lei è stato ascoltato. La forma dell’arte è stata perfezionata sotto forma di merda in scatola, cioè di "mèrde d’artiste" scritto in lingua francese perché fa sempre "fino".

Il Suo filosofare, caro Professore ha giocato intere generazioni di piccoli storici, di piccoli esteti, di pensatori dediti al plagio e alla copia e di piccoli artisti con velleità socio-politiche, tutti scolari delle Sue scuole, che, dette una di sinistra e una di destra non differiscono che nei pannicelli messi a coprire le loro vergogne.

Oggi però le neuroscienze stanno mettendo in ginocchio le Sue scuole, Lei, il Suo maestro e il maestro dei maestri moderni. Alludo a Cartesio che garantisce l’Esistenza perché è pensata. Oggi è scientificamente certo che "per pensare, il cervello ha bisogno di oggetti così come gli occhi per vedere" (Changeux, Ragione e Piacere, pag. 112 Cortina 1995). Nonostante Cartesio stesso rifletta dicendo "nella proposizione io penso dunque sono non c’è assolutamente nulla che me ne assicuri la verità, se non che vedo nel modo più chiaro che per pensare si deve essere" (Cartesio, Discorso sul metodo, Mondadori 1993 pag. 32), il mondo cosiddetto moderno sostiene che la realtà non è anteriore al suo pensarla sostiene anzi che la garanzia della realtà è il pensarla secondo la proposizione interpretata di Cartesio e la seguente teoria kantiana delle conoscenze a priori. Non solo, ma il cosiddetto "pensiero debole" oggi di moda, mette in dubbio l’esistenza della realtà perché il suo pensarla non la garantisce che soggettivamente.Anche Lei Professore si accordava con Cartesio e con Kant a maggior sicurezza del mondo moderno dicendo che "il reale è razionale e il razionale è reale". Oggi le ricerche sull’encefalo possono aiutare i filosofi. Si è accertato che è solo il reale fisico che può costituire l’idea del reale come si è detto. E però il sistema nervoso centrale è un’organizzazione programmata secondo una esigenza anteriore alla sua coscienza razionale. La conservazione della vita è un’esigenza che per tutti gli esseri è anteriore alla coscienza encefalica della conservazione. Infatti questa esigenza è posseduta anche da organismi senza encefalo, quindi senza razionalità. Perciò il "cogito" cartesiano si deve far garantire sempre più dall’"essere". Perché è accertato che si può essere senza pensare di essere. Invece il mondo moderno ha ridotto l’essere a poter non essere perché antepone la razionalità all’essere.

È vero che noi possiamo pensare uomini con le ali.

Ma l’esistenza degli uomini e delle ali è reale. Gli elementi costitutivi e analitici di questo oggetto del pensiero sono in relazione di analogia alla realtà genetica ancorché l’oggetto della loro sintesi non sia per nulla genetico.

L’opera d’arte propone una forma razionale ancorché irreale. Allievi suoi e plagiatori in veste di filosofi neohegeliani, presa alla lettera la Sua massima ("Il razionale è reale"), Le fanno fare la massima brutta figura come Ella merita dicendo che l’arte è irrazionale. Ma l’arte sarebbe irrazionale solamente quando non avesse un rapporto di analogia con la realtà data, come è mostrato dai moderni informalisti che, da bravi allievi Suoi, infatuati del reale come razionale e del razionale come reale ritengono che essendo irreale, l’arte sia anche irrazionale con che è dimostrata l’imprudenza della loro ragione.

È vero che il reale è razionale, ma non sempre il razionale è reale. Infatti ogni progetto artistico è razionale ma irreale. Quindi posso dire che penso perché sono e non viceversa, anche se questa verità era sentita da tutti anche prima di sapere quello che hanno fatto sapere le neuroscienze. Oggi "l’apprensione soltanto sensibile" (Hegel, Estetica, Einaudi 1976, pag. 45) è un non senso poiché il pensare il reale e l’apprendere sensibilmente il reale sono una cosa sola. Si sta scoprendo anche che i sensi possiedono una capacità di selezionare con intelligenza senza ricorrere al pensare encefalico. Così la finalità della forma artistica avendo un sensibile rapporto di analogia con la finalità della forma genetica già data, si fa garantire nel suo valore genetico dalla finalità della forma genetica già data.

L’essere vivente è così l’incarnazione del suo progetto artistico la cui efficienza è data in temporanea possessione dalla Esigenza dell’efficienza genetica.

Sarebbe un insulto spiegare a Lei la differenza fra la proprietà e la possessione di un bene. Lei sa meglio di me che la possessione non comporta la necessità della proprietà. Così nel possedere l’esigenza del mio progetto artistico non ne ho la proprietà. E allora ogni mia esigenza, pur essendo mia perché la possiedo io, mi può venir tolta. Perciò non credo che comporti nessun scandalo per Lei se sostengo che non sono io il proprietario di me stesso, mentre comporta certamente per Lei una forte contrarietà che io dica che la mia carne e il mio spirito sono lo stesso. Ma Le scrivo proprio per poterglieLo dire con il conforto di uno stuolo di scienziati che, mi creda, sono filosofi a tutti gli effetti. L’arte è il prodotto della specie che organizza se stessa per sua esigenza. Ella dice che "tutto quel che è spirituale è superiore ad ogni prodotto naturale" (op. cit. pag. 37). Ma ogni essere naturale possiede una funzionalità finalistica relativa alla sua forma personale come tutti vedono facilmente. Per questo fa necessità che la forma della natura sia la forma della sua finalità ossia la sua forma artistica o spirituale. Da questo discende che la finalità, qualsiasi finalità anche storicamente immorale, è spirituale, quindi la forma della natura e lo spirito della natura sono lo stesso ente e la ragione della efficienza di questo ente si può chiamare con il nome di Dio o Esigenza Primaria dell’esistenza. Mi sembra di capire che Ella per "spirituale" intenda ciò che è "morale". Mi sembra di capire che il suo "spirito assoluto" non sia altro che assoluto bene degli uomini associati storicamente. Ma a me sembra che lo "spirito" sia il semplice progettare di tutta la materia. E il progetto di un essere debba essere definito morale o immorale se utile o disutile alla società degli individui che detta le regole della propria sopravvivenza. Moltiplicare il pane ed i pesci per sfamare una folla è altamente morale e ha come movente un grande amore per gli uomini. Ma per i pesci questa moltiplicazione della loro morte appare una perfida aggressione degli uomini. Infatti anche gli uomini ritengono una perfida aggressione la peste. Le imprecazioni degli uomini contro Dio per il male che altri esseri procurano agli uomini sono dovute all’aver confuso come fa Lei lo "spirito" con la morale degli uomini. Dio non può essere né imprecato né pregato perché è l’Esigenza progettuale di tutti gli esseri compresi quelli che distruggono l’uomo. Quindi sia il bene che il male sono spirituali.

Professore, le moderne scoperte ci dicono che non esiste "un lato esterno della forma" (Hegel, op. cit., pag. 84).

Perché il nostro spirito è quello stesso nostro corpo finalizzato senza lati esterni, ma tutti interni e esso stesso contenuto di sé, quindi "la manchevolezza della forma" non "proviene" "dalla manchevolezza del contenuto" (op. cit., pag. 87). Ma da se stessa se manca di sé.

L’arte non purifica la forma del sensibile poiché il sensibile è esso stesso arte. L’arte di un artista è solamente una parte di arte genetica e si personalizza in atto mediante una scelta finalizzata ad uno scopo personale. E in questo solo modo l’arte è personale pur essendo universale. L’arte è il finito dell’infinito. Così nella natura non può esserci altro che totale purezza e forma sostanziale e mai "accidentale apparenza" (Hegel, op. cit., pag. 7).

La forma genetica ossia la forma della natura è il suo stesso spirito che si sta elaborando per uno scopo da miliardi di anni. Mi voglio ripetere dicendo che a me sembra che la forma della natura sia il capolavoro artistico finale della natura genetica anche se non ultimo e l’arte di un singolo artista sia una parte di quella, finalizzata dall’artista come individuo genetico. E perciò non può esserci una forma né genetica né artistica inadeguata al suo contenuto. Un Suo assunto recita che può esserci "un’arte imperfetta che rispetto al punto di vista tecnico e ad altri punti di vista può essere del tutto compiuta nella sua sfera determinata ma che appare manchevole in confronto al concetto stesso dell’arte e all’ideale" (Hegel, op. cit., pag. 87). Lei vuole sostenere che può esserci un’arte formalmente compiuta, ossia perfetta nella sua sfera artistica ma manchevole rispetto ai contenuti artistici per cui sarebbe imperfetta? Come dire un’arte perfetta ma imperfetta, il che mi sembra miserevole. Ella sostiene sempre e ovunque che nel procedere artistico vi sono due strade, percorse dallo stesso veicolo, una è formale e accidentale come dice Lei, l’altra spirituale. Ma quando e come le due strade si incontrino affinché il veicolo percorra la strada dell’arte vera Lei non lo dice e non poteva di più, perché se si fosse addentrato nel problema avrebbe dovuto risolvere la sua contraddizione che pone la natura come impotente a "essere": "il finito scompare" ecc. ecc. soggetta come dice Lei all’esteriorità. Quell’esteriorità i miei contemporanei su Suo suggerimento l’hanno cacciata dall’arte e come si vede non è rimasto nulla. E questo è dovuto al fatto che l’esteriorità non è esteriore, ma tutta interiore e la strada è una sola.

Il Suo, caro Professore, è stato un grande abbaglio. Si è fatto abbagliare da uno spirito immaginario. Non Le è stato concesso di pensare che ogni forma della natura è unica e irripetibile e per questo a noi detta per sé l’idea di sé come dimostra l’esperimento di Moruzzi. L’irripetibilità di una forma la eleva a "sostanza", così che, come è nella realtà così come si è visto sarà pensata e razionalizzata. E ciò che porta le forme della natura all’unico e universale valore è la loro convergente finalità. La loro libertà consente loro la scelta di un percorso personale verso un punto di arrivo comune. In questo modo la libertà dell’artista darà la possibilità di una scelta formale per la sua opera convergente a quel fine in accordo con quello genetico. E quanto maggiore sarà l’adeguatezza della sua scelta formale al suo scopo, maggiore sarà la bellezza della sua opera. E dove una forma artistica avrà uno scopo non univoco o contraddittorio, là sarà posto un limite alla sua perfezione a quello scopo, quindi un limite alla sua bellezza.

Così un quadro, una casa, un paio di scarpe, un nido di uccelli, un alveare faranno parte del corpo stesso di chi li ha prodotti. E però la bellezza essendo proporzionata alla perfezione formale in ordine ad uno scopo univoco non sarà vincolata al bene morale di un’epoca storica. Mi permetta professore di distinguere la morale di un gruppo storico dall’etica della specie. Il gene elimina le esperienze personali e storiche del gruppo se le ritiene inutili alla specie. Quello che Lei chiama "spirito assoluto" potrebbe anche essere un errore storico da rigettare. Mi consenta così di avere una opinione diversa dalla sua e dire che l’operare artistico è evolutivo. Evolve geneticamente l’individuo anche se dovesse peggiorare moralmente l’individuo e il suo gruppo storico.

L’opera d’arte ha una destinazione oltre il tempo della morale storica nel quale è prodotta. L’opera d’arte anche se è negativa per la sua tematica promuove le abilità adatttative all’ambiente, evolve l’individuo e il suo ambiente. Così è artistica sia la forma genetica di un individuo sia la forma da lui prodotta per necessità d’essere individuo genetico. Platone auspicava che il bello fosse anche buono quindi anche Platone ammetteva che il bello può non essere buono "Non piccolo sarà infatti il profitto se poesia apparirà non solo dolce e soave ma anche utile" (Platone Politeia X, pag. 438, Rizzoli 1953). È chiaro che il buono morale non può trovarsi in un’opera che esalti comportamenti storicamente immorali. Ma la bellezza di un’opera d’arte è la semplice perfezione della sua forma, ordinata sì ad uno scopo ma non risiede nella bontà o utilità morale dello scopo. Posso farLe un esempio banale: due atleti competono per vincere una gara di corsa. Se uno di questi a mezza strada incomincia a meditare sul mistero della S.S. Trinità perdendo coerenza nei movimenti non fa cosa malfatta ai fini della problematica religiosa e perciò fa bene ed è buono quello che fa ai fini della problematica religiosa, ma fa cosa malfatta, perciò fa male, e non è buono quello che fa in ordine allo scopo di vincere la gara. Così si può agevolmente dire che il primo atleta, ha vinto la gara per aver coordinato perfettamente al fine tutte le forme della sua energia e ha realizzato una forma perfetta ad un fine univoco e quindi ha realizzato rispetto all’altro atleta, una forma artistica. L’atleta mentre corre può anche produrre una forma artistica adeguata al problema della S.S. Trinità e produrre contemporaneamente una forma artistica inadeguata alla vittoria della corsa. Ma in ogni caso il valore delle due forme è sempre riferito alla loro perfezione formale che si evidenzia nel prodotto finale e non nella utilità del prodotto finale altrimenti l’atleta che perde la gara avendo prodotto, con il suo pensare alla trinità di Dio, un bene superiore alla vittoria della gara vincerebbe la gara mentre la perde. Ma l’arte di vincere una gara non è l’arte di risolvere il mistero della Trinità di Dio. Lei invece crede che possa esserci una forma perfetta dal contenuto artistico insufficiente. È come se credesse che l’atleta che perde la gara per aver prodotto un bene spirituale superiore pensando alla Trinità di Dio, sostanzialmente corra meglio dell’atleta che vince. Lei non ritiene che l’opera d’arte sia la sua stessa forma. Ma chi vince corre meglio perché corre di più. Ha prodotto una forma ordinata al fine quantitativamente maggiore di chi ha perso la corsa. La quantità finalizzata in atto determina la qualità del risultato. Così l’oggetto artistico è determinato dal più o dal meno quantitativo di forma finalizzata e questo le farà rizzare i capelli in testa. Per chiarirmi Le devo fare ancora un paio di esempi: sia sottoposto a giudizio estetico un dipinto: si supponga la rappresentazione del vizio dell’Ira. Se in quest’opera sono rappresentate forme che possono far supporre che l’ira è un pacifico stato d’animo, si realizza per quest’opera quell’incongruenza equivoca che più sopra ho descritto per l’atleta che rallenta la corsa per filosofare e che quantitativamente sottrae forma specifica alla sua corsa. Il giudizio estetico sarà allora negativo e sarà invece positivo se l’opera d’arte avrà il possesso di una forma perfettamente convergente al suo scopo, quello di rappresentare il vizio dell’ira per quantità di forma adeguata al suo scopo.

Ma anche la semplice rappresentazione di una forma genetica senza tematica può essere perfetta o imperfetta in modo graduato secondo il grado di analogia alla finalità della forma genetica: un ritratto senza tematica può essere oggetto di rappresentazione artistica. Quando il ritratto di un volto si equivoca con un altro volto possiede una quantità insufficiente di forma finalizzata come quella dell’atleta che filosofeggia mentre corre la gara. Una forma quantitativamente non sufficiente al suo scopo non è bella esteticamente. Quindi in un’opera d’arte sono possibili forme belle ma non il bello come "specie". Comunque un volto, anche prescindendo dalla rappresentazione del soma specifico di un individuo, ha nella rappresentazione dei caratteri genetici di un gruppo genetico il proprio soggetto e quindi la possibilità di una perfezione rappresentativa non vincolata alla rappresentazione di un individuo determinato. In questa coerente analogia e aderenza della forma rappresentativa o artistica alla forma genetica sta la bellezza di una forma artistica. Perfezione inoltre può esserci nella rappresentazione di oggetti d’uso, questa perfezione sempre è valutata in ordine alla analogia del suo modello, vale a dire al servizio che l’oggetto d’uso fa, e poiché l’uso, ossia la funzione finalizzata di un oggetto d’uso, è il suo contenuto, questo assurge a contenuto della rappresentazione. Così la bellezza è rintracciabile anche nella perfezione dello stesso oggetto d’uso e non solo nella sua rappresentazione. Quando la forma di un oggetto d’uso sarà perfetta in relazione al suo scopo sarà bella rispetto ad un’altra che non assolve perfettamente al suo scopo.

Dalle Sue lezioni, signor Hegel, ho creduto di cogliere una lezione che mi impone di capovolgere la Sua dottrina per potermi acquietare nella coerenza logica. Non ho retto soprattutto a due banalità da Lei proposte. La prima: l’annullamento, mediante conciliazione, di due cosiddetti opposti: la forma e il contenuto, ossia il superamento della "lotta dello spirito contro la carne" (Hegel, op. cit., pag. 65). Lei propone una purificazione della forma "esteriore" come se questa imbellettata di spirito diventasse interiore, Lei pensa che un ritratto possa essere perfettamente dipinto e non cogliere lo spirito del volto ritratto. Ma se un ritratto non coglie lo spirito non coglie il volto dello spirito e per questo quel ritratto non è perfettamente dipinto.

Forse gli incompetenti prendono per buona pittura quella ben levigata in superficie e allora fanno come Lei che da quello che dice, di arte non capiva niente. Gli incompetenti pensano che il levigato sia di difficile esecuzione e in quanto difficile lo ritengono artistico.

Anche Platone termina il dialogo dell’Ippia, dove è trattato il problema del bello, dicendo che il bello è difficile. Al contrario Leonardo da Vinci, che certamente in fatto di arte ne sapeva, riteneva l’arte un procedere temperato e le difficoltà, se mai vi fossero state, non dovevano vedersi nell’opera d’arte e tanto meno le fatiche fisiche che l’artista potrebbe sopportare occasionalmente nell’esecuzione, Michelangelo distrusse i disegni di preparazione delle sue opere perché non fosse mai vista la fatica che aveva fatto per poter produrre l’opera d’arte. Se avesse pensato che il bello è difficile non si sarebbe vergognato sia pure per immodestia di aver fatto fatica a raggiungerlo. Infatti ciò che è difficile non dà godimento, per cui il fruitore platonico in questo caso, nel caso non ricevesse alcun godimento dal difficile penserebbe di contro l’opinione del maestro che il bello è facilissimo e non difficile. Ma che non sia facile è certo. Infatti il facile non è progettuale, non è attivo ma retro-attivo così che il bello mi appare spontaneo ma non difficile anche se non è facile. Bisognerebbe chiedere alle api se il loro alveare è difficile da costruire. Le api costruiscono il loro alveare come Fidia il Partenone: per esigenza. L’esigenza rende spontaneo ciò che altri, non avendo la stessa esigenza, trovano difficile. Fidia avrebbe trovato difficile costruire un alveare. Ora, tornando a noi, se lo scopo è quello di levigare una superficie, una superficie ben levigata è artistica. Ma l’arte della rappresentazione dello spirito, ossia delle forme fisiche, non è l’arte di levigare una superficie. Quindi un ritratto solamente ben levigato non può essere ben dipinto. Caro professore io La capisco: il primo Ottocento, epoca della Sua vita mortale, ha visto il fiorire di piccoli artisti che credevano come Lei nel "levigato" e credevano come Lei che la perfezione artistica fosse la perfetta "leccatura" della pasta colorata. Ma intuendo vagamente che la cosa non stava proprio in quei termini, Lei invocava un contenuto che si opponesse al levigato chiamato da Lei "forma tecnicamente compiuta nella sua sfera determinata". Io penso che Lei per forma tecnicamente compiuta si riferisse a quel levigato perché se non fosse così Lei a cuor leggero macinava la farina di contraddizioni madornali che poi elaborava e ammanniva sotto forma di ciambelle con il buco perfetto. E però resta in ogni modo chiaro che il Suo filosofare d’arte era un annaspare in una materia a Lei sconosciuta. Per parlare di un mestiere è necessario essere almeno un po’ del mestiere. Dico questo non perché confonda un mestiere con la eccellenza del mestiere perché tutti sanno che il mestiere è un genere e l’arte di quel mestiere è il livello di quel mestiere, che può essere tanto alto quanto basso fino a scomparire nel mestiere della filosofia del mestiere, mi perdoni, fino a scomparire nel chiacchierare di estetica come ha fatto Lei e hanno fatto tanti suoi seguaci ancora oggi viventi. Caro Professore, non separi la forma dell’arte dai contenuti dello "spirito". Al massimo separi questi dalla verniciatura levigata.

La Sua teoria della separazione della forma dai contenuti ha prodotto danni incalcolabili. Più le tematiche erano ritenute il contenuto dell’arte, più si imponevano sulla forma per essere questa alla fine assorbita dalla filosofia morale, credendo, con questo, di portare la forma dell’arte alla sua morte. L’arte perdeva la sua atemporalità fino a che si è gabbato per arte il contingente pronunciamento politico puro e semplice della scelta o di sinistra o di destra, secondo l’impostazione delle Sue scuole. Artistico è diventato il puro comportamento sociale e non un oggetto perfetto. Così oggi succede che è artista un comunista perché non è fascista, un baciapile perché non è mangiapreti. Se uno incendia le case sulla destra della strada è un artista di sinistra che fa opera d’arte portando a coscienza i "supremi interessi dello spirito" e uno che incendia le case sulla sinistra della strada è un artista di destra che fa opera d’arte portando a coscienza i supremi interessi dello spirito. Gli atleti che vincono la gara, i pittori che fanno un bel quadro, si dice siano superati perché si perdono nell’"accidentale", cioè nella forma come diceva Lei e non si impegnano a portare a coscienza "i supremi interessi dello spirito". A questi artisti, al massimo, si dà una pacca sulle spalle perché continuino lodevolmente. L’atleta vinca ancora, ma se anche perde fa lo stesso. Infatti si va dicendo che quel che conta non è vincere, ma partecipare alla gara. Ma questi insegnanti della "pura" arte che non distinguono il primo atleta dall’ultimo non si accorgono che partecipare ad una gara senza vincitori e senza vinti è come stare all’ingrasso come i maiali.Così tutto è buono e tutto cattivo insieme.

Mi creda caro Professore: oggi siamo tutti nello sterco perché la forma dell’arte è stata abbandonata per i "supremi interessi dello spirito" e ci ritroviamo senza interessi e lo "spirito" è solamente quello degli scettici. La gara non si disputa più senza figurazione sensibile, tutto si mescola, anche il bene e il male si omogeneizzano e omogeneizzati, i bambini crescono molli, senza spina dorsale, per i quali tutto è lecito, anche quello di sparare ai passanti per divertimento e in seguito morire di overdose. Caro Professore, non separi la forma dal contenuto. La forma è il contenuto. A lei sembrò che il contenuto appartenesse all’intelletto e non alla "carne" perché non sapeva che il cervello rappresenta tutta la progettualità della carne. Le sembrò che la progettualità fosse il comando finalistico dell’intelletto e i sensi fossero un vile meccanismo dell’attuazione quando non erano di ostacolo. Le sembrò che la "carne" non fosse lo stesso intelletto perché non era nell’encefalo. Mentre la carne non solo è nell’encefalo ma la progettualità dell’encefalo è dettata dall’esigenza della carne, come dimostra l’esperimento di Moruzzi. Oggi si scopre che l’idea di forma reale è la sola realtà che l’encefalo possiede, al punto che cervello e intelletto per la loro comune finalità diventano sinonimi. Se non fosse così l’intelletto non sarebbe la funzione del cervello, il che si è dimostrato non vero. Quindi l’immagine formale non contiene il suo spirito ma è essa stessa spirito. Se non fosse così la progettualità di un essere pensante sarebbe anteriore all’essere pensante e allora la predeterminazione toccherebbe tutto. Ma noi qui si rifiuta l’esistenza di una pur minima predeterminazione vedendo con chiareza l’esistenza della libertà.

Per tenere buona la Sua lezione sull’accidentalità della forma della natura, qualcuno a maggior gloria del "contenuto" sostituisce, nell’opera d’arte, la forma analogica della realtà con la riproduzione fotografica della forma della realtà.

Deve sapere che cento anni circa dopo la sua morte è stata inventata una macchina capace di fissare su un foglio di carta le immagini della natura proprio come fa il cervello con lo strumento degli occhi e della mano sulla carta. Questa immagine chiamata fotografica è riferita ad una frazione di secondo della realtà diveniente. Questi operatori si servono delle fotografie per portare a evidenza i "supremi interessi dello spirito" che qui possiamo tranquillamente chiamare ideologie politiche ad uso dei tempi, visto come sono andate le cose. Ed è vero che una fotografia può possedere la finalità della tematica come un’opera d’arte, ma l’opera d’arte non è la sua tematica ma il come che, come si è visto, è il "quanto" formale, che porta a evidenza la tematica. Nella fotografia è riprodotta una forma anteriore alla volontà dell’artista. L’arte invece produce al di là della tematica una forma nuova. La fotografia della natura è come la natura allo specchio. Oggi si sa che gli occhi del cervello scattano milioni di fotografie ogni secondo e la progettualità del cervello utilizza solo quelle immagini che ritiene costruttive o utili al progetto. Come avrà capito una sola fotografia meccanica è una vera miseria artistica rispetto ad un’opera uscita dalla selezione finalizzata di milioni di immagini cerebrali. La forma analogica o artistica è una nuova personale forma. In definitiva il contenuto dell’opera fotografica è il predicozzo della tematica, quel predicozzo che Lei ha fatto credere contenuto d’arte ma che oggi appare quello che è.

Lo stesso si deve dire della costruzione per assemblaggio operata con il "computer". Questi dà la possibilità di svolgere con efficienza una tematica ma con una forma precostituita o prefabbricata e anteriore alla volontà dell’artista. Gli svolgimenti tematici da computer non possiedono una forma discesa dalla libertà dell’artista. E quando con il "mouse" si volesse disegnare una forma si farebbe ancora quello che si è sempre fatto con la matita. Con la differenza che una matita obbedisce di più alla mano e la mano è lo stesso intelletto. Il "mouse" come strumento sostitutivo della matita e della mano è un peggioramento della capacità di trasmissione dell’idea encefalica.

La costruzione della forma analogica operata da un artista spiritualmente manuale è tale da trasformare nella rappresentazione la forma della natura. La forma artistica con la sua analogia è una nuova natura. È come la natura: irripetibile, quindi vera spirituale sostanza. L’assemblaggio risulta invece senza unità formale ma unitario solo nello svolgimento tematico. Lei dovrebbe vedere questo marchingegno utilissimo per alcune prestazioni finalizzate al risparmio di tempo. Il "computer" è come un immobile magazzino di immagini immobili nel quale rintracciare pezzi di ricupero per adattarli alla costruzione dell’idea tematica. Il computerista che preleva le forme dal computer non possiede personalmente l’idea della forma che preleva per la sua tematica. L’idea di quella forma risale all’operatore che l’ha archiviata nel computer. E il trovare già fatta una forma significa poi trovarsi nella incapacità di pensarla autonomamente. Lei capirà a questo punto le conseguenze dell’aver annullato la centralità della forma a favore di uno spirito immaginario o contenuto puro. Di quel Suo spirito o puro contenuto è rimasta la mera tematica sociale di breve durata storica, di breve ed effimero utilizzo strumentale. È rimasta l’incapacità di pensare una forma, quindi di pensare un contenuto artistico.

La sua seconda banalità è espressa da Lei così "l’opera d’arte non è un prodotto naturale, ma è prodotta dall’attività umana" (Hegel, op. cit., pag. 33).

Lei vuole che l’attività umana non sia naturale e allora è naturale che Ella voglia che anche l’uomo non sia naturale. Forse che vi sia una realtà umana non naturale? Se Lei vuole che l’arte non sia naturale non la vorrà percepibile. E allora perché scrive parole percepibili se l’oggetto delle sue parole non lo vuole percepibile. Lei ha predicato cose non predicabili. Oggi le neuroscienze ci danno la prova che nessuna conoscenza può oltrepassare l’oggetto sensibile naturale come Le ho detto. E anche le deduzioni da premesse, se queste sono vere, cioè verità sensibili, non fanno che rendere formalmente esplicito ciò che era già nelle premesse. E siccome il nostro sistema nervoso centrale è il prodotto di una evoluzione partita miliardi di anni fa con la costituzione di una prima molecola e di un organismo unicellulare, fa necessità che la libertà individuale delle cellule nostre antenate sia la base di partenza della formazione del nostro attuale sistema nervoso centrale. Dice Johann Friedrich Meckel "L’animale superiore passa durante il proprio sviluppo attraverso gli stadi organici permanenti delle specie a lui inferiori" (Changeux, Ragione e piacere, Cortina, pag. 129).

Così è necessario che la rappresentazione mentale abbia la sua forma modellata dalla forma sensibile e finalizzata della natura come dimostra l’esperimento di Moruzzi. È anche necessario che la prima cellula nostra antenata abbia posseduto la capacità estetica di distinguere e scegliere per sé il meglio rifiutando il peggio. Senza la libertà e capacità di scelta delle prime cellule nostre antenate non sarebbe stata possibile la nostra libertà di scelta attuale.

Così fra lo spirito genetico che Lei chiama "carne" e la libertà progettuale dell’individuo attuale che Lei chiama "spirito" non c’è una lotta, ma identità di lavoro di costruzione che va dall’individuo alla specie. Parte dalla prima molecola e arriva all’uomo più evoluto "Conserviamo nel nostro cervello l’impronta materiale dei nostri antenati pesci vissuti circa trecento milioni di anni fa e forse anche di vermi primitivi ancora più antichi" (Changeux, op. cit., pag. 147).

La memoria delle esperienze che riteniamo utili mediante un giudizio estetico serve da modello e punto di partenza per nuove conoscenze. "Questa eccezionale capacità del cervello umano di produrre e valutare rappresentazioni mentali, di comunicarle e di memorizzarle, rende possibile la propagazione e la perpetuazione delle rappresentazioni da una generazione all’altra" (Changeux, op. cit., pag. 156).

Questa memoria delle esperienze è ritenuta da molti incapace di modificare il codice genetico. Ma se le forme di vita si evolvono mediante le esperienze in modo logico, fa necessità che la memoria delle esperienze sia la fonte della codificazione genetica. Diversamente le esperienze sarebbero inutili. Non si può credere che una evoluzione consequenzialmente logica sia dovuta al caso, il quale non è progressivo né logico, ma saltuario e reversibile. È accertato che animali addomesticati hanno subito evidenti modifiche ossee e quasi strutturali dei muscoli nel corso di migliaia di secoli rispetto agli esemplari che allo stato brado non hanno subito. Ora, se vi sono due animali con la stessa partenza genetica e uno di questi, cambiando ambiente, si modifica, significa che è l’adattamento al nuovo ambiente che modifica la sua struttura e non il caso. E dato che oggi non possiamo accettare che l’evoluzione sia programmata in anticipo, ma sia il risultato di un reciproco adattamento attuale per esigenza degli individui e dell’ambiente formato dagli individui, fa necessità che la memoria delle esperienze sia la fonte delle decisioni di comportamento ambientale che evolvono la specie e quindi il gene nei tempi e nei modi scelti dall’evoluzione ancora per sua esigenza "nel cervello si intrecciano in modo singolare tre evoluzioni, quella della specie, quella degli individui e quella delle culture" (Changeux, op. cit., pag. 6).

Vittorino Andreoli dichiara la possibilità per l’encefalo di "una propria modificabilità sulla base di stimoli esterni e quindi dell’esperienza" (La norma e la scelta, Mondadori 1984, pag. 19). Ora se attualmente sono possibili delle modifiche strutturali dell’encefalo dovute all’esperienza attuale è anche possibile ipotizzare che tutta la struttura dell’encefalo si sia formata mediante l’esperienza passata. Se si considera che le prime forme di vita dei nostri antenati si svolgevano senza encefalo fa necessità che l’encefalo sia il risultato finale, anche se non ultimo, di una attività conoscitiva partita dalla aggregazione in organismo delle prime cellule se non delle prime molecole. Così è necessario che anche il codice genetico sia il frutto finale e non ultimo di una trasformazione partita dalla prima aggregazione in organismo dei primi elementi vitali all’inizio della loro esperienza conoscitiva.

Credo che Ella vorrà tenere conto delle notizie del moderno mondo scientifico e vorrà prendere in considerazione ipotesi come questa. Così che Ella possa non pensare più che lo spirito non è il corpo. Che Ella possa pensare che lo spirito si evolve perché è corpo. Se lo spirito non si evolvesse la nostra prima cellula antenata avrebbe dovuto possedere lo stesso nostro spirito attuale, ma è ragionevole che ogni corpo sia il suo stesso spirito ancorché abbia un’anima in comunanza con il resto del mondo.

A questo punto Lei mi chiederà cosa sia l’anima se lo spirito è corpo. Con questa domanda Ella insinuerà che io nego l’esistenza dello spirito e se non esiste lo spirito non esisterà nemmeno l’anima.

Io vorrei definire l’anima come l’Esigenza dell’efficienza fisica o spirituale, ma non causa determinante lo spirito, come vorrebbe Lei. Lei descrive l’anima come ciò che coordina il movimento finalizzato delle parti del corpo. Questo movimento non "accidentale" (Hegel, Estetica, Einaudi 1976, pag. 143) Lei lo nega agli animali che avrebbero solo movimento arbitrario, non conforme a legge. Peculiarità dell’anima è per Lei la determinazione del movimento cosciente. Ma Lei trascura una proprietà importante del movimento che è la sua continua efficienza finalistica anche dopo la morte del corpo cosciente e delle parti che lo costituiscono. Ed è naturale che sia così perché ai suoi tempi non si conosceva il movimento degli atomi e delle loro particelle. Questo movimento è finalizzato alla vita in generale e rivela una mirabile efficienza coordinata alla creazione di altre vite coscienti e non coscienti. Questa efficienza non può essere personale anche se l’individuo, in quanto spirito, finalizza personalmente questa efficienza. Infatti se l’individuo potesse darsi da sé l’efficienza sarebbe immortale. Dunque l’efficienza del movimento è dovuta ad un ente che trascende l’individuo che chiamerei Anima o Esigenza Primaria dell’esistenza. Il coordinamento finalizzato del movimento invece lo attribuirei allo spirito, vale a dire al corpo finalistico di ogni individuo. Se l’anima come dice Lei determinasse il movimento del corpo, avrebbe un rapporto con il corpo della stessa natura. Oltre che ad essere peculiare di quel corpo avrebbe un rapporto evolutivo con il corpo, perdendo ogni trascendenza sul corpo, mentre l’anima, nell’essere essa solamente l’esigenza dell’efficienza del corpo, la sua trascendenza sul corpo è limpidamente necessaria. Questa distinzione rende comprensibile la simultanea presenza nella realtà di un ente immortale come Esigenza dell’efficienza di ciò che è mortale, rende necessaria l’Anima come Esigenza del corpo progettuale, ossia dello spirito.

Lei dice che la simmetria dei cristalli è dovuta alla mancanza in loro dell’anima, il che spiega quale concetto Ella abbia dell’anima. L’anima per Lei "si concentra nell’occhio" (Hegel, op. cit., pag. 175) "che è la sede dell’anima" (Hegel, op. cit., pag. 176). Per Lei "gli organi più nobili sono quelli interni: fegato, cuore, polmoni" (Hegel, op. cit., pag. 157).

Lei ha dell’anima un concetto mortale come conviene solo al corpo, ossia allo spirito nella sua unicità e irripetibilità progettuale. L’anima invece si rivela a noi come l’Esigenza dell’efficienza del progetto. Perciò trascende il progetto di ogni essere vivente, quindi trascende ogni spirito. E così, essendo il movente universale non è patrimonio personale, ma è solamente una possessione personale come Le ho detto. L’anima è l’Esigenza dello spirito ossia del corpo. L’anima di un santo è la stessa dell’uomo più abbietto. È la ragione dell’efficienza dell’esistenza. È la tensione che ci permette di costruire liberamente la nostra vita genetica. Quindi l’anima è Dio stesso, come lo spirito dell’uomo è l’uomo stesso. Così l’anima mi appare un ente che non può lasciare il corpo ma solamente lo trasforma. Fra l’Anima Divina e lo spirito dell’uomo e di ogni essere progettuale compresi i cristalli e le particelle subatomiche non può esserci nessun intermediario e nessun ostacolo, quindi nessun conflitto né conciliazione, poiché l’essere vivente possiede l’Esigenza della sua efficienza che lo trascende. Così l’Anima divina è posseduta dalla natura in quanto esiste la natura e la morte di Dio è solo un pronunciamento insensato che ne afferma la presenza.

Così fino a che gli esseri viventi vivranno come forma artistica, ossia come spirito, per loro Esigenza non vi sarà per essi alcuna opposizione con il corpo. La forma genetica così mi appare come la forma dello spirito della specie, mi appare come opera d’arte; efficiente per sua Esigenza e come ho detto in temporanea possessione dell’anima. L’arte non morirà certo per le pretestuose ragioni che Lei adduce. "L’interiorità" non "celebra il suo trionfo sull’esterno" e non "fa apparire nell’esterno e su di esso una vittoria con cui è tolto ogni valore a ciò che appare sensibilmente" (Hegel, op. cit., pag. 34).

La scienza moderna ha annullato la distinzione fra l’interno e l’esterno, fra l’interiore e l’esteriore e ha ridato al sensibile tutto il valore che Ella gli aveva tolto. Con questo è vinta la morte dell’arte e vinta la morte di Dio. L’arte potrebbe morire se morisse l’Anima. Ma la morte dell’Anima annullerebbe l’esistenza al di là della stessa energia, il che mi sembra impossibile. Illustre Professore rifondo inchiostro nel calamaio ma la carta mi serve per disegnare figure sensibili, quindi non mi dilungo. E però un’ultima cosa mi preme di dirLe. Riguarda il triste fatto del quale anche Lei è a conoscenza, ma che acquista un valore diverso se interpretato correttamente: sembra che l’imperatore d’oriente Leone III nel settimo secolo dell’era Cristiana non emise in buona fede i suoi famosi decreti contro le immagini sacre. Questo Leone, mille anni prima di Lei, pensava come Lei, ma fingeva, che le immagini fossero la "carne" in lotta contro lo spirito. Questo Leone avrebbe potuto scrivere le Sue stesse parole "l’arte non è, sia rispetto al contenuto che alla forma, il modo supremo ed assoluto di portare a conoscenza dello spirito i suoi veri interessi" (Hegel, op. cit., pag. 14). Ma gli interessi dello spirito di Leone III erano quelli imperiali. Erano contestati dal monachesimo cristiano di cultura classica. Per colpire l’opposizione politica tentò di colpire la cultura dell’oppositore, come si fa di regola.

La morte dell’arte voluta da Leone III è la morte teorizzata da Lei. Ma un filosofo non può falsificarsi come un imperatore e non può permettere che qualcuno gli faccia osservare la contraddizione dove è caduto, come è caduto Lei nel togliere valore alla figura con un linguaggio figurativo. Se noi ci parlassimo e le nostre parole non fossero figurative, non ci capiremmo. Così a prima vista senza conoscere i veri motivi dell’iconoclastia antica non si capisce perché le immagini siano state bersaglio di Leone III e perché un pensatore come Lei non abbia rilevato la contraddizione nel teorizzare l’impotenza della figura a rappresentare lo spirito con una interminabile sequela di sentenze formalmente figurative, quindi, secondo la sua stessa teorica, all’istante suicide. A rigore l’iconoclastia antica doveva colpire anche scritti e conversazioni e gli stessi figurativi imperiali decreti, e Lei professore avrebbe dovuto stare zitto e non tenere le sue figurative lezioni antifigurative. Gli artisti informalisti di oggi sono più coerenti di Lei, e portando alle logiche conseguenze la sua dottrina non producono più alcun oggetto, perché anche una tela bianca fatta assurgere preventivamente con parole figurative a simbolo della teorica non figurativa, parla, mediante il suo silenzio, il linguaggio figurativo della sua teorica. Una tela bianca per sé non è artisticamente nulla, ma sostenendo con il suo non essere figurativa la negazione del figurativo, si fa eloquente e figurativo messaggio della sua filosofia non figurativa. Così anche la tela bianca per non dover sottostare al linguaggio figurativo che la spiega è decaduta per quella coerenza che a Lei è mancata.

Dicono gli storici che tutti quelli che fanno il mestiere dell’aguzzino non vedano di buon occhio la diffusione della cultura e per nascondere l’abietto scopo di imperare sugli altri escogitano problemi artificiali. Il solito argomento escogitato dal tiranno sostiene che Dio non è figurabile, cosa che sanno tutti, anche gli artisti biecamente figurativi. E siccome Dio non è figurabile, ne deriverebbe per il tiranno che tutto ciò che riguarda lo spirito promanato da Dio non è figurabile. Lei dall’alto della sua cattedra universitaria pontifica esattamente come l’imperatore iconoclasta e scrive per la futura decadenza dell’arte che "Dio in questo spirito è ora saputo anche in modo più alto, più corrispondente al pensiero con il che si è nel contempo proposto che la manifestazione della verità in forma sensibile non è veramente appropriata allo spirito" (Hegel, op. cit., pag. 122).

Questa è una deduzione che sanno fare solo i parlatori, ma che gli artisti rigettano. Dato che ogni conoscenza si attua mediante una immagine o figura e che ogni forma mentale è determinata dalle immagini, fa necessità che sia figurativa, cioè strutturata secondo la sua immagine, anche la sua comunicazione. Secondo la dottrina cristiana Dio si è fatto uomo e questo io credo simbolicamente solamente per comunicare con gli uomini "nell’eterna memoria della vita nella carne del nostro Signore Gesù Cristo, noi abbiamo ricevuto la tradizione di raffigurarLo nella sua figura umana esaltando così l’autoumiliazione della Parola di Dio" (Germano VIII sec.). Ma in realtà di quale superbia si macchia quel filosofo o quell’artista che si separa dalla "carne"? Forse la più forsennata perché per poter fare questo deve negare la sua stessa carne che ridotta al nulla non può pensare all’esistenza di Dio, ossia all’Esigenza primaria della esistenza. Fa anche necessità che la distruzione delle immagini sia distruzione della conoscenza e senza conoscenza non può esserci un’idea razionale di Dio. Questo implicitamente accusa la sua cattedra di oscurantismo. Noi troviamo apertura alla conoscenza e quindi troviamo scientificamente corretto il fondamento dell’antica Scolastica che postula non esserci nulla nell’intelletto che non sia stato prima nei sensi. Riteniamo logicamente e secondo le prove scientifiche che ciò che è stato prima nei sensi possieda nell’intelletto la forma dei sensi.

I cosiddetti concetti puri non sono figurabili ossia non sono rappresentabili. Se i concetti come il concetto di spazio puro, dichiarati indipendenti dall’esperienza empirica, secondo la dottrina kantiana da Lei accettata in questo fondamento non possono sottomettersi alla rappresentazione figurativa è per il semplice fatto che non esistono. E un cristiano di quale peccaminosa contraddizione si macchia credendo possibile la morte dell’arte se questa è la morte di Dio? Per chi Gesù prese su di sé il martirio come uomo? Perché il corpo di Gesù resuscitò dalla morte se il corpo è quel vile ingombro dal Signor Hegel tanto spregiato? Forse per i cristiani che negano l’esistenza di Dio. La chiesa cristiana faccia una accurata analisi delle ragioni di un’arte non iconica e dichiari se è Cristiana oppure eretica.

Per i nostalgici del mondo iconoclasta e regressivo è faticoso accettare che tutto il loro pensare sia un prodotto successivo all’organizzazione neuronale anche se si dice loro che questa è mossa dalla efficienza Divina. Il realismo scientifico li spaventa perché poveri di spirito e perché la loro certezza nella necessità di Dio è debole. In loro vi è anche debolezza logica e debolezza di carattere. Si sottomettono timidamente a chiunque salga in cattedra e non trovano le pur vistose contraddizioni in dottrine come la Sua, eminente insegnante. La debolezza fatale è quella che impedisce di distinguere le cose efficienti dalla Esigenza della loro efficienza. Questa debolezza è causa della difficoltà a far coesistere in modo simultaneo Dio e la libertà degli esseri viventi. Questo terrore discende dal non distinguere il concetto di anteriorità dal concetto di priorità.

A me sembra che Dio non può essere creatore ossia anteriore e causa delle creature altrimenti sarebbe stato creatore di ciò che prima del tempo ancora non aveva creato, perciò fa necessità che la libertà della nostra efficienza non sia posteriore ma simultanea alla Esigenza dell’esistenza. Si può dire che la Esigenza della nostra efficienza è la stessa presenza di Dio in noi. Quindi Dio non può avere una anteriorità sulle cose efficienti perché in quella anteriorità sarebbe stato causa efficiente di ciò che non era ancora efficiente perché ancora non c’era. Quindi Dio non ha predeterminato il nostro progetto. Ma anche la Sua priorità non è alcunché di più nobile rispetto a ciò che non è prioritario, poiché è inconcepibile che una nobiltà o priorità sia efficienza della sua mancanza. Così Dio non può creare qualcosa, né lo può creare a Lui inferiore né solo simile poiché ripugna l’evento di un atto di Dio che Egli non abbia fatto da sempre e di pari dignità rispetto al suo potere. Voglio dire che l’esigenza dell’efficienza delle cose non può essere nel tempo maggiore di quanta non sia stata da sempre. Si può precisare che se si sostiene che Dio ha creato il mondo, si deve ammettere che prima della creazione Dio era in potenza all’atto della creazione. Ma passare dalla potenza all’atto significa "divenire" e Dio non può essere soggetto a divenire, quindi Dio non può essere creatore del mondo.

Per poter sostenere che Dio è creatore del mondo e nel medesimo tempo sottrarlo al divenire temporale si sostiene che anche il tempo sia stato creato da Dio prescindendo dal tempo. che significa concepire Dio nell’eternità e precisando che l’eternità non è la totalità del tempo, ma ogni esistenza nell’eternità scompare. Scompare anche l’esistenza di Dio. Professore, Lei che è abile giocatore di logica mi dica se si può giocare sulla semplicità di un concetto inesistente come il concetto di eternità se questa non è la totalità del tempo. Mi dica, se si può comunicare questo falso concetto così: l’eternità pur sembrando tempo infinito non ha con il tempo la minima parentela, né affinità né lontana analogia. L’eternità non ha nulla a che fare con qualche cosa conosciuta o conoscibile. La conoscenza di ogni cosa è soggetta all’immagine che ce ne dà il tempo. Se dovessi far capire ad un bambino intelligente, non ad un giovane universitario corrotto dal suo docente di filosofia, cosa sia l’eternità gli direi di immaginare per prima il tempo di anni, di molti miliardi di miliardi di anni che passano. Poi di immaginare l’eternità come una cosa che vede passare tutto questo tempo in un miliardesimo di secondo e subito soggiungerei che nemmeno questo miliardesimo di secondo avrebbe a che fare con l’eternità perché questa con il tempo proprio non ha a che fare. Il miliardesimo di un miliardesimo di secondo si misura, l’eternità non c’entra con nessuna misura.

Cosa dice professore di questo stratagemma per far capire ad uno scolaro cosa sia l’eternità se non è la totalità del tempo?

Veda Lei però, se anch’io ho capito bene cosa si intenda per eternità. Questa mi sembra come il Suo infinito assoluto che non avendo niente in comune con l’infinito numerico è come l’eternità che non ha niente in comune con il tempo.

Lei però dovrebbe spiegarmi perché alla parola "eternità" chiunque pensi subito al tempo infinito e alla parola infinito tutti pensino all’infinità di cose finite. Non è forse perché a tutti l’eternità e il puro infinito appaiano inesistenti? Non è perché nell’encefalo vi sono solo realtà finite? A me sembra che chi sostiene l’esistenza di una eternità che non sia il tempo infinito, menta a sé stesso, infatti la definizione di un ente senza tempo si regge solamente sulla negazione di ogni definizione reale. È nella negazione del temporalmente conosciuto che noi perveniamo all’inesistente chiamato con un nome vuoto. Io credo che la deduzione dell’esistenza di un ente trascendente il reale è possibile solo là dove il trascendente non sia opposto al reale, ma sia la sua garanzia, dove il "finito sia vero essere" allora tutto si può dire di quell’essere proprio perché è esso stesso infinito. Qualcosa può essere pensato senza percezione attuale ma alla condizione che non prescinda dalla percezione passata e comprenda la sua finalità.

Allora non è una diminuzione di Dio attribuirGli l’esigenza dell’efficienza del mondo, perché senza l’Esigenza della sua efficienza il mondo non esisterebbe. Ma come si vede l’Esigenza dell’esistenza non si regge su alcuna negazione o opposizione ma è l’affermazione per eccellenza. Né si toglie a Dio l’infinità, infatti è infinita l’efficienza dell’infinito come totalità del tempo.

Si dice che Leonardo da Vinci prima di dipingere un quadro preparasse la vernice finale adeguata. Per questo qualcuno andava dicendo che Leonardo era pazzo perché cominciava un’opera dalla fine e non dal principio. Questo aneddoto può servire a far capire come una "priorità" non sia anteriorità e non sia soggetta alla successione temporale. Infatti in ordine al tempo Leonardo prima doveva dipingere il quadro poi verniciarlo. Ma se la vernice non fosse stata preventivamente fabbricata o pensata in modo concretamente adeguato a quel dato quadro che si sarebbe dipinto con una data tecnica, quel quadro si sarebbe fatto inutilmente o non si sarebbe fatto. Per Leonardo la vernice aveva una priorità rispetto al quadro ancorché una posteriorità temporale ad esso. La Priorità di Dio è la semplice garanzia dell’efficienza delle cose e non ha relazione con la cronologia delle cose quantunque garantisca le cose nella loro cronologia. Questa garanzia dell’efficienza trascende l’oggetto garantito ed efficiente. È unica e, non essendo soggetta alle cose efficienti, si addice a Dio come unico attributo. Quindi Dio può essere pensato anche se non è percepito perché è pensato come la garanzia di ciò che è percepito in quanto ciò che è percepito non può (senza finalità) garantirsi da sé. Dio essendo la finalità delle cose percepite garantisce la loro esistenza. Se la materia percepita costituisse l’"opposto" di Dio, Dio scomparirebbe perché l’opposto di ciò che è certo è l’impossibile. Dio non sarebbe pensato. Nella negazione dell’Esistenza della materia vi è la negazione dell’Esigenza dell’esistenza. Dio perciò è reale perché il finito reale che pensa Dio è reale. Il reale lo pensa come la garanzia della sua esistenza. E non è pazzia distinguere l’Esigenza dell’efficienza dalla cosa efficiente. Se si ammette il finalismo di ogni nostro atto sarà necessario distinguerlo dalle cose finalizzate almeno ai nostri occhi. Ma sembra che i nostri occhi vedano quello che c’è e non quello che non c’è. Ma tante cose Professore, Lei, con gli occhi non le vedeva: inventava gli "opposti" di ciò che vedeva. Noi vediamo la priorità di Dio come la priorità che diamo allo scopo di quello che facciamo noi. Quindi, essendo Dio la Esigenza dell’efficienza di ciò che facciamo, fa necessità che Dio abbia una priorità senza determinazione temporale per quello che facciamo. Ma anche in quello che non facciamo, se è pensato come fatto o da farsi mediante le conoscenze del reale.

Anche la semplice idea di fare un oggetto o il bene o il male è formalmente strutturalmente fisicamente concreta nell’immagine encefalica e mossa dalla stessa Esigenza di un fatto compiuto. Nel scegliere di fare qualcosa vi è già la forma di quella cosa nella nostra struttura fisica encefalica. Sono solo gli impedimenti mossi dalla volontà di altri che possono deviare il nostro progetto, e perciò anche se il progetto non è realizzato, la sua Esigenza Primaria non è venuta meno, appartiene alla priorità dell’Anima senza determinazione specifica come si è detto.

Lei ora finalmente mi chiederà perché io La faccia analoga all’imperatore iconoclasta: Lei non aveva un impero da difendere, è vero, ma difendeva la sua baronia facendo fumo e non arrosto: prese la forma della natura come capro espiatorio con estrema freddezza e non pensò alle conseguenze.

Del resto si sa che alla vista delle stupende montagne innevate delle Alpi, Lei era senza emozioni. Oggi il neurobiologo sospetterebbe in Lei una lesione o una disfunzione cerebrale tipica di chi è perfettamente razionale senza emotività.

Ma è tempo che io chiuda questa lettera comunicandoLe, come ho promesso, i risultati di un esperimento eseguito con correttezza scientifica, dove si dimostra che la forma della natura sensibile è il contenuto della natura e dell’idea di natura: un ricercatore francese, il Professor Changeux che dirige il laboratorio di neurobiologia molecolare all’Institut Pasteur di Parigi, riferisce di un esperimento condotto da un gruppo di scienziati su un macaco. L’esperimento si è svolto sottoponendo a registrazione le risposte dei neuroni della scimmia che, precisa il professor Changeux, sono omologhi a quelli dell’uomo. A questa scimmia è stato mostrato il disegno di un volto umano visto di fronte. Poi è stato mostrato lo stesso disegno, ma senza gli occhi. Successivamente il disegno è stato mostrato con linee, si direbbe oggi in gergo artistico "naif". Poi l’immagine è stata scomposta e mostrata in parti separate, in gergo artistico oggi si direbbe: "astratto", cioè non figurativo: senza analogia alle forme genetiche del primo disegno. Ebbene le risposte neuronali, partendo dalla più intensa per la prima immagine, sono andate via via diminuendo fino quasi a scomparire di fronte alla proposta astratta. L’esperimento dimostra che se un segno non è riconducibile per analogia alla funzione di una immagine logica ossia strutturalmente finalizzata per natura, non è riconducibile cioè ad un valore razionale, non produce risposte emotive. L’esperimento dei ricercatori fa ora da fondamento scientifico alla tesi da me e da altri pochi sostenuta che l’informalismo artistico nell’escludere ogni analogia alla forma genetica della natura esclude la possibilità di ogni risposta emotiva. Questo esperimento dimostra ancora che quel "sensibile" che Ella crede debba essere vinto è chiaramente vincitore. Lo spirito, come lo ha immaginato Lei in opposizione alla "carne" non esiste e l’arte è solo la perfezione formale finalizzata del sensibile, di quel sensibile, dal quale discende ogni conoscenza e quindi ogni movimento spirituale in quanto sensibile. Caro Hegel l’arte che Lei ha crocifisso, il terzo giorno è risuscitata.

Le invio vivi sensibili saluti

Mario Donizetti

P.S. Sento il dovere di chiederLe scusa per il tono arrogante che pervade la mia lettera, ma è stata scritta sotto l’impulso dell’offesa che ho ricevuto dal mondo moderno del quale Ella è uno dei padri fondatori.

 


 

LETTERA A PLATONE


Caro Platone, caro Maestro,

forse ancora nessuno Ti ha fatto sapere quello che con magnanimità gli scienziati del mio tempo hanno fatto sapere a tutti, abbattendo la distinzione fra l’uomo dal senso comune e il filosofo dal "sapere estatico".

Anch’io sono venuto a conoscenza di alcuni fatti. Li ho messi in relazione ai recenti problemi dell’arte e alla Tua dottrina delle "idee" e ho deciso di scriverTi questa lettera.

 

Dunque, mi diceva Vittorino Andreoli, neurologo di grande fama, che quando un organismo è composto da poche cellule non possiede mai un sistema nervoso e tanto meno un sistema nervoso centrale, o cervello, perché le cellule essendo poche, sono tutte a contatto diretto con l’esterno del corpo al quale appartengono e per questo possono avere autonomamente e direttamente dall’esterno ciò che serve loro per la loro sopravvivenza. E pur senza le direttive di un cervello, tutte le cellule agiscono per il proprio bene singolo che è simultaneamente il bene dell’intero organismo. Le cellule di un organismo sono strutturate ciascuna secondo la propria esigenza così come quelle che senza far parte di un organismo vivono in coacervo in maniera autonoma, non comunitaria. Le cellule in coacervo, anche se vicine le une e le altre, non hanno nessun rapporto utile fra di loro e nessun interscambio come al contrario hanno quelle di un organismo.

Io qui Ti chiedo se è possibile dire che un organismo è tale e si differenzia dal coacervo quando le cellule assumono con le altre vicine e accostate una funzione ordinata ad uno scopo comune e non sono più autarchiche e autonome. Se si può dire così mi sembra allora che si possa anche dire che è possibile il rapporto non incompatibile fra la "pluralità" e "l’unità". Si può dire che ciò che determina "un" organismo come tale è la finalità comune delle sue parti ed è così possibile pensare che a loro volta le parti di un organismo sono "uno" e tali perché mosse a loro volta da una finalità come il nucleo, le membrane, ecc. (nel caso specifico delle cellule). Queste parti a loro volta sono costituite da altre parti sempre più numerevoli caratterizzate da una loro comune finalità come le molecole, gli atomi e le particelle più piccole. Come ho detto la "pluralità" (le parti di un organismo) diventa "unità" solamente quando le parti assumono una comune finalità. Tu hai dimostrato che "uno" non può essere formale anche se sferico e monoblocco come diceva Parmenide. Ricordo la Tua osservazione: che il centro di una sfera non è la sua superfice e allora resta che "uno" è solo il fine il quale però proprio perché è il fine, trascende le parti. Mediante la sua unità, trascende le forme e i loro meccanismi. Per contrario infatti se la finalità del meccanismo si identificasse nello stesso meccanismo come vorrebbero i moderni, anche l’idea stessa di meccanismo verrebbe a mancare. Infatti è l’"uno" che fa possibile i "molti" in quanto i "molti" sono "molti uno". Se l’"uno" della finalità non esistesse, non potremmo avere l’idea di "uno" e allora non potremmo nemmeno avere l’idea dei "molti" meccanismi e delle molte forme, delle molte cellule, dei molti atomi che sono "molti" proprio perché sono "uno" nella finalità.

La individuazione del meccanismo, ossia della forma funzione di un oggetto o di un corpo, è possibile là dove si individui "una" finalità, come si è detto per l’organismo rispetto al coacervo. Quindi è necessario che l’"uno" sia l’esistenza dei "molti" e viceversa: ai molti verrebbe a mancare l’esistenza se non avessero "una" finalità che li trascende, e alla finalità verrebbe a mancare l’esistenza se non finalizzasse i molti perché senza i molti non finalizzerebbe nulla.

La trascendenza della finalità rende possibile l’esistenza sia dell’"uno" che dei "molti" formali.

I "molti" sarebbero annichiliti, ossia inesistenti senza l’esistenza dell’"uno" e però l’"uno" a sua volta non avrebbe "realtà" se fosse privato dei "molti" perché sarebbe la finalità di ciò che non esiste e una finalità di ciò che non esiste non esiste. Fa così necessità che "uno" e "molti", ossia i corpi e il loro scopo, siano simultanei, anche se distinti.

Ti dicevo allora che quando un organismo, grazie alla continua moltiplicazione delle sue cellule, diventa complesso, quando le sue cellule superano per il loro numero la superficie dell’organismo esposta all’esterno, quando cioè alcune cellule vengono da quelle esterne isolate all’interno dell’organismo e non hanno più la possibilità di un contatto esterno per soddisfare direttamente i loro bisogni di conoscenza del loro bene o del loro male singolo e, quindi, non possono più direttamente scegliere il loro bene e così attendere alla loro conservazione, l’organismo fabbrica cellule nervose e le dispone in un sistema che si ramifica in tutto il corpo e porta al suo interno, cioè alle cellule interne del corpo, quelle notizie che le cellule esterne già conoscono grazie alla loro posizione.

Negli animali cosiddetti superiori il numero delle cellule è tale da contarsi a miliardi di miliardi, allora il sistema nervoso ha bisogno, come si vede, di una centrale di raccolta delle notizie e di ritrasmissione dei comandi a tutte le cellule del corpo secondo le notizie ricevute, sempre al fine della sopravvivenza dell’intero organismo.

Come all’ufficio di uno Stato le staffette portano le notizie dalle periferie, così al cervello arrivano le notizie dalla periferia del nostro corpo portate da una catena di cellule nervose.

Come dal governo partono ordini alle provincie di confine per quello che conviene o non conviene fare con gli stati confinanti secondo le notizie ricevute, così dal cervello partono ordini di fare o non fare questo o quello, secondo le notizie ricevute, a tutte le cellule del corpo. E non si può escludere che gli Stati, fin dalla più antica antichità, si siano organizzati senza saperlo sullo schema degli organismi genetici per la stessa necessità e quindi secondo una legge naturale. Nella funzione di ricevere e comunicare notizie, tutto il corpo sente, partecipa a queste funzioni, sente se stesso in una tensione finalizzata a queste sue funzioni proprio come in una vera democrazia.Lo Stato è al servizio degli individui che lo compongono e questi identificano i propri interessi nello Stato. E non è escluso che, sia per un corpo che per uno Stato, vi sia un naturale collasso quando non vi sia corresponsione come dicevi Tu di "amorosi sensi". Tu hai concepito la tua "Repubblica" proprio come un corpo naturale con suddivisione specialistica delle parti. Come un corpo si serve di diverse specializzate cellule secondo le funzioni, Tu pensavi al servizio della repubblica uomini specializzati in speciali funzioni.

Ma torniamo al nostro interesse primario: le cellule di un organismo senza sistema nervoso e senza cervello possiedono ugualmente, come Ti ho detto, la capacità di un comportamento finalizzato: hanno una loro ottimale maniera di comportarsi per vivere e moltiplicarsi. Né più né meno come le cellule organizzate da un sistema nervoso centrale. Il loro metodo appare molto semplice ma è altrettanto perfetto.

Così come Ti ho detto, via via che il numero delle cellule di un organismo aumenta, aumenta la complessità, non la perfezione, della rete nervosa e del suo sistema centrale. Questa complessa organizzazione nervosa e del cervello sembra si formi per risolvere un problema già risolto dallo stesso organismo quando le sue cellule erano talmente poche da essere tutte logisticamente disposte al contatto del mondo esterno come Ti ho già detto. Ma è necessario che, al di là delle apparenze, questa organizzazione sia finalizzata alla soluzione di un problema nuovo e posteriore a quello della nutrizione, o sopravvivenza e moltiplicazione delle cellule, essendo incomprensibile la soluzione di un problema già risolto.

 

Bene. Questi fatti esigono una correzione o precisazione della Tua teoria della anteriorità delle "idee" sulla realtà.

La Tua dottrina vuole che la realtà sia "copia" dell’"idea". Tu mi hai già capito, ma Ti do lo stesso notizie che la scienza del tuo tempo non poteva darti: anche il nostro cervello, come il cervello di altri animali - e qui Ti prego umilmente di non inquietarti e Ti prego di proseguire con benevolenza la lettura di questa mia lettera - si è formato dopo i complessi sviluppi del numero delle cellule del nostro corpo antenato il quale si è formato come gli altri a partire da una prima cellula nostra comune antenata. E come per tutti gli organismi anche il nostro antenato si trovò nella necessità di formarsi prima un sistema nervoso, poi di centralizzarlo nell’encefalo.

Questo presuppone che la nostra prima cellula antenata e le nostre attuali cellule doveva e devono possedere una struttura facente funzione di sistema nervoso centrale anche se incapace di una memoria di tempi lunghi ma capace di decidere immediatamente, cioè senza mediazione cerebrale, rapidamente per sé il suo bene e rifiutare il male.

Questa capacità decisionale o libertà finalistica delle cellule e degli organismi acefali viene interpretata da qualcuno come un puro meccanismo senza libera finalità. Ma è contro la ragione che un meccanismo si muova senza scopo. Infatti se un organismo non avesse finalità sarebbe immobile, non avrebbe altro scopo che quello di esistere senza muoversi per uno scopo. La potestà di essere immobile, nel pieno soddisfacimento di sé rende superfluo l’eventuale meccanismo, perché la semplice potestà di se stesso è da sé sufficiente alla sua esistenza, non ha bisogno di alcun meccanismo per esistere secondo un meccanismo. Quindi è necessario che dove ci sia un meccanismo ci sia anche una Esigenza finalizzata che renda efficiente e finalizzato il meccanismo trascendendolo.

Le singole cellule, come si vede, possiedono efficienza finalistica, possiedono una efficienza logica. Ed è allora necessario che il comportamento dell’organismo composto da cellule senza sistema nervoso centrale differisca da quello con sistema nervoso centrale solo nel non avere memoria centralizzata e di lunga durata. L’idea encefalica così ci appare come la memoria della capacità logico efficiente cellulare, memoria utile anche alla conservazione di quelle cellule segregate e disposte logisticamente lontane dal contatto esterno dell’organismo, come Ti ho detto. Si può quindi ipotizzare che sia gli organismi composti da cellule senza sistema nervoso, sia gli organismi organizzati da un cervello abbiano una "idea" della loro finalità. I primi una idea-memoria-corta adeguata o utile solamente alle decisioni attuali senza ricordo o memoria storica delle decisioni prese anteriormente e in questo atto-decisione esauriscano la memoria di sé. I secondi abbiano la possibilità di conservare questa memoria corta per averla trasmessa mediante la rete nervosa ad un archivio finalisticamente attivo a favore di quelle cellule senza il contatto con la realtà esterna.

Questo archivio alimenta, come hai visto, di notizie anche quelle cellule logisticamente a contatto con il mondo esterno grazie alla rete nervosa che dapprima porta al cervello la memoria corta, ma la ridistribuisce mediante lo stesso strumento come memoria lunga. Il cervello non sarebbe altro che la memoria delle necessità finalistiche di un organismo, ma, sia nell’organismo acefalo che nell’organismo cefalo, noi vediamo un meccanismo finalizzato ugualmente perfetto al punto che non sappiamo dire quale dei due sia migliore.

Ora tornando alla nostra prima cellula antenata e dunque al problema della anteriorità delle idee rispetto alla realtà, devo pensare che anche Tu adesso, che hai saputo l’origine del nostro cervello e la ragione o esigenza per la quale si è formato, penserai che Socrate nel mirabile dialogo con Ippia dovrebbe sostenere il contrario di quello che ha sostenuto.

Oggi Tu per bocca di Socrate diresti che non è più pensabile che l’idea di letto sia anteriore ad un letto vero e sia copia dell’idea di "specie" di letto data da Dio, perché in quel caso la prima nostra cellula antenata, e anche antenata di animali diversi come pesci e vermi, doveva già avere l’idea di letto.

Le prime cellule antenate non avevano cervello per pensare storicamente e allora non potevano avere l’idea di "specie" né l’idea di letto, che è storica per eccellenza.

Le idee storiche, come hai visto, esigono un sistema nervoso centrale per determinarsi, per costruirsi strutturalmente come memoria lunga con i tasselli della memoria corta. Così mi sembra che se qualcosa deve essere anteriore alla realtà fisicamente formale, come Tu vuoi che sia l’idea di "specie", questa cosa sia, nel caso del letto, solo la esigenza del riposo che è anteriore all’idea di letto perché il riposo può essere soddisfatto anche senza un letto. Le cellule sentono questa esigenza in relazione alla loro forma senza idea storica o encefalica del letto e della specie del letto.

Tu vedi che la costituzione di un sistema nervoso centrale o cervello è dovuta all’esigenza di conservare la memoria delle esigenze che la rete nervosa raccoglie. La costituzione della rete nervosa è dovuta all’esigenza di trasmettere alle cellule interne dell’organismo le esperienze delle cellule con posizione di contatto esterno all’organismo. La posizione di contatto con l’esterno dell’organismo delle cellule è dovuta all’esigenza della loro nutrizione o conoscenza del mondo esterno ai fini di un interesse interno, a sua volta la nutrizione è dovuta all’esigenza di esistere. Dopo di che mi sembra che tutte queste esigenze differenziate dai loro fenomeni siano mosse da una sola Primaria e indifferenziata esigenza. Mi sembra che l’Esigenza di esistere sia per tutti i fenomeni la stessa.

Infatti se è vero che la costituzione del sistema nervoso centrale è l’ultima in ordine di tempo nella formazione di un organismo, se è vero che una volta costituito il sistema nervoso centrale, o cervello, questi è il primo per importanza in relazione alla finalità della conservazione dell’organismo (anche se in seguito il cervello ha potuto avere altre finalità) Io credo di capire, e Tu mi devi dire se sbaglio, che tutto l’organismo è posto dall’Esigenza della sua esistenza. Se è così la successione temporale di quelle che abbiamo elencate come esigenze, che conducono alla formazione dell’organismo, compreso il suo sistema nervoso centrale, non sono altro che un elenco di fenomeni dovuti ad una sola Esigenza. I fenomeni poi sono in successione logica, perché la loro Esigenza è una sola. Infatti quella che è stata enumerata come la prima esigenza nella finalità della conservazione di un organismo è anche l’ultima, che vuol dire simultanea alla prima e alle intermedie. Essendo la loro consecuzione solamente una parzialità del tutto, esse si riducono nel tutto ad unità. Non essendo l’Esigenza soggetta al patimento del tempo e della numerazione determinata dei fenomeni, è necessario che sia "una" e trascenda i fenomeni.

Implicitamente l’Esigenza Primaria, trascendendo i singoli fenomeni, non può essere causa dei fenomeni, poiché fra la causa ed il causato non può, per esigenza di ragione, esserci differenza di natura.

E ancora per esigenza razionale discende subito che i fenomeni singoli non possono causare, per sé soli, altri fenomeni. Infatti i fenomeni sono coordinati logicamente e ciò che è soggetto a coordinamento non può essere coordinatore: ciò che è soggetto al potere non ha potere. Se i fenomeni sono finalizzati logicamente, la logica dei fenomeni li trascende. E "una" e trascendente finalità non può altro che finalizzare "un" solo fenomeno. Così i molti fenomeni sono parti di un solo fenomeno. Così appare chiaro che anche la costituzione degli organismi con cervello fa parte dello stesso fenomeno che costituisce organismi unicellulari le molecole gli atomi e tutto il mondo minerale, voglio dire tutta l’esistenza.

Ai giorni nostri alcuni ricercatori scientifici negano che i fenomeni abbiano una causa necessaria e pensano che il fenomeno sia dovuto alla sua "condizione". Questo concetto di "condizione" a me non sembra diverso dal concetto di causa. Mi sembra che la "condizione" sia una moltitudine di cause simultanee. Il fenomeno invece di avere una causa anteriore necessaria come dicevano gli antichi ne avrebbe molte e alcune di queste darebbero il fenomeno a caso. Questa nuova teoria del caso prescindendo da quella antica mi sembra una storpiatura della teoria di Heisenberg. Il grande scienziato si rese conto che nel mondo subatomico (e solamente in quello perché nel grande cosmo si ammette che la legge non è data a caso) l’osservazione dei fenomeni interferiva come concausa nello svolgimento degli stessi, contaminandoli. Si rese conto che l’unica maniera di avvicinarsi alla verità dei fenomeni era quella di numerare gli esiti sperimentali e vedere su quante osservazioni a date "condizioni" il fenomeno atteso si verificava. Questo significa attribuire alle "condizioni" potere causante.

Il fenomeno dipenderebbe ancora dalla necessarietà della causa e non dato a caso. Il caso infatti inficierebbe il valore del calcolo delle probabilità. Se il mancato fenomeno fosse dovuto al caso anche il fenomeno lo sarebbe e, su ciò che potrebbe essere e insieme non essere, non è possibile fondare nessuna scienza. Heisenberg doveva credere con profondità al legame necessario fra causa ed effetto se elaborò un metodo di indagine sul rapporto causa effetto dove fosse esclusa la discontinuità e l’imprecisione dell’osservazione da parte del ricercatore.

Dicevo allora che, come i fenomeni non possono causare altri fenomeni, e questi esistono per Esigenza Primaria che li trascende, così questa Esigenza non li può causare, altrimenti non li trascenderebbe, essendo necessario fra una causa e il causato un rapporto della stessa natura.

Tempo addietro mi sembrò che fosse una causa efficiente il movente dei fenomeni, ma ora mi rendo conto che il concetto di causa sia così formato da non essere adeguato a quello che voglio dire.

Infatti per "causa" si intende ciò che possiede la potenza di un atto che è il causato. Questo rapporto presuppone una anteriorità temporale della causa sul causato, mentre ora mi sembra di capire che fra il fenomeno e la sua Esigenza non c’è un rapporto temporale (del prima rispetto al poi), un rapporto di dare e avere, ma di "essere" in simultaneità. L’Esigenza del mondo che abbiamo chiamato con il nome di Dio non solo non può essere causa del mondo, perché ciò significherebbe attribuire alla Causa la natura del causato, ma nemmeno può essere efficienza del mondo poiché è impossibile che una cosa efficiente come il mondo sia posteriore alla sua efficienza, quindi le "cause" e i fenomeni sono simultanei e allora anche il moderno concetto di "condizione", presupponendo una anteriorità della "condizione" sui fenomeni, è inadeguato. Infatti, secondo i ricercatori scientifici, senza "condizione" il fenomeno non può verificarsi, quindi la "condizione" è una moltitudine di cause, il che si è visto impossibile.

Resta quindi che le temporali successioni logiche dei fenomeni sono dovute al fatto d’essere queste, parti consequenziali di un solo fenomeno incausato, e trasceso dall’Esigenza della sua esistenza unitaria. Ne consegue che fra un fenomeno anteriore e un altro successivo resta lo stesso rapporto logico come fra causa ed effetto, salvo deviazioni provvisorie del corso del fenomeno previsto dovute alla interferenza della libertà di fenomeni sconosciuti, fenomeni che una volta conosciuti restituiscono al loro corso piena logicità come fossero dovuti a cause necessarie. Il caso è quindi escluso.

Tu mi chiederai adesso se un determinato fenomeno può verificarsi senza cause oggettive, ossia senza "condizione".

A prima vista sembra impossibile, ma ho osservato questo: un gruppo di virgulti di una pianta cresceva dal seme in maniera omogenea all’ombra di un muricciolo. Qualche tempo dopo vidi alcuni di questi virgulti piegati lateralmente. La loro estremità tendeva verso una fessura del muricciolo da dove passava luce e aria. Dopo alcuni giorni notai che i virgulti piegati verso la luce erano notevolmente cresciuti rispetto agli altri e salivano decisamente verso la sommità del muricciolo. Era evidente che questi virgulti si comportavano finalisticamente in modo diverso dagli altri e per ciò che riguardava la loro crescita, in maniera ottimale. Gli altri restavano più piccoli. Ti faccio questa domanda: causa anteriore della maggiore crescita di quei virgulti è stata la fessura o la loro personale esigenza di crescere di più?

A me sembra che sia l’una che l’altra siano simultanee. A me sembra che se la fessura è causa, sono causa allora anche il seme, la terra, il calore, lo stesso virgulto è causa del fenomeno della sua stessa maggior crescita. Se è così il virgulto è causa di sé, il che è impossibile, come si è visto. Così l’Esigenza Primaria dei virgulti è la stessa che muove l’ambiente e i virgulti e appare simultanea alla loro esistenza e i fenomeni in successione logica ci appaiono come parti razionali di una sola realtà. Le "parti" sono consequenzialmente logiche perché sono costitutive della realtà e non perché sono causate come fenomeni che sarebbe ammettere in esse la totale mancanza di libertà.

 

E però resta necessario risolvere una contraddizione apparente: se la realtà è una, le sue parti, ossia i fenomeni razionalizzati, sono obbligati ad essere così come sono e la libertà non c’è? Quella che ho chiamato idea progettuale personale è una illusione? Si risponde che l’intervento personale sul mondo delle cose è libero ma secondo la legge formata dalla libertà delle cose precedentemente avuta nella formazione del mondo. Io non sono libero di non pensare poiché nel non voler pensare penso di non volere pensare. Così sono libero di aggiungere al fenomeno evolutivo del mondo ciò che al mondo manca per evolversi secondo la mia opinione personale e, dato che la mia opinione è data da Esigenza logica, è necessaria alla logica del mondo. La libertà è garantita dalla logicità e non dal capriccio, ossia dal caso. Questi non garantisce nemmeno se stesso. Poiché se il caso è dato a caso potrebbe non essere dato. Ciò che è dato è garantito dalla sua necessità. Così il progetto, pur essendo personale e libero, è universale e sotto legge.

Mi ripeto: gli addendi di una somma sono disposti liberamente con valori diversi, quindi sono liberi, ma la somma è unica e la legge che la determina è una sola. L’idea della realtà precedente alla coscienza encefalica personale è vincolata alla libertà degli avi o individui precedenti e costituisce legge. L’idea progettuale degli individui attuali è libera e costituirà legge quando sarà codificata. Il cervello è libero nel progetto attivo ma non retroattivo. Infatti i moderni ricercatori hanno costatato, come vedrai più avanti, l’esistenza nell’encefalo di due zone distinte, una genetica che ha assunto come legge le esperienze ataviche, un’altra chiamata "zona plastica" che rappresenta le libere esperienze personali e quindi rende possibile un progetto personale libero dalla legge genetica e così il mondo si costituisce mediante la sua stessa libertà che diventa legge.

Caro Platone, torno per ora al Tuo problema della anteriorità delle "idee" sulla realtà.

Dopo aver visto che l’idea razionale o encefalica della realtà è posteriore ad ogni realtà data; alla luce delle recenti scoperte mi sembra necessario capire meglio, direi in modo dettagliato, come si possa avere oltre all’idea encefalica di un oggetto qualsiasi come un letto determinato, anche un’idea della sua "specie".

Per prima allora io ho visto che l’unica Esigenza è quella dell’esistenza e che la successione logica e obbiettiva dei fenomeni è finalizzata alla costituzione della totalità.

Poi vedo non solo che la totalità non può avere una finalità oltre se stessa, ma nemmeno una finalità immanente. Mi sembra necessario che la somma o totalità dei fenomeni non abbia finalità per nulla, perché la totalità è il traguardo della finalità delle sue parti.

Mi sembra che una finalità, non possa essere immanente: un atleta corre per vincere la gara. La vittoria va oltre il correre e lo trascende, ma se il traguardo non esistesse, l’atleta correrebbe per correre. La sua finalità sarebbe immanente cioè inesistente. La finalità per sua natura esige la sua estinzione mediante lo svolgersi dei suoi atti verso un punto di arrivo.

L’immanenza della finalità del mondo mi sembra un gioco di prestigio messo in atto per salvare l’infinità del mondo e insieme contraddittoriamente il concetto di causa, ossia del suo cominciamento dal nulla.

Infatti, se il mondo è infinito, sembra non possedere un traguardo e, senza un traguardo, la finalità scompare e così scompare la sua causa. Per non farla scomparire si dichiara che la finalità è immanente al mondo.

Ma io credo che la finalità sia solo nelle cose che formano il mondo e la finalità delle cose, come le cose stesse, si estingue nel realizzare il mondo.

Qualcuno può far osservare che la totalità del mondo è data dalle sue parti: se le parti possiedono finalità questa è posseduta anche dalla totalità. A questa osservazione si può rispondere facendo osservare l’esempio dei corpi della terra che hanno peso determinato sulla terra, ma la terra costituita dalla totalità dei corpi pesanti non ha alcun peso determinato. Assumere una finalità come somma delle parti, sia pure all’interno del mondo, significa ammettere per questa finalità un processo di ritorno ai fenomeni e allora le finalità sarebbero due, una di andata verso la totalità e una di ritorno ai fenomeni. Se così fosse sarebbe possibile anche la ripetizione di corpi formalmente identici essendo la forma dei corpi la forma fenomenica della finalità.

Così è necessario che i corpi del mondo siano diversi e in eterno cambiamento, proprio a causa della loro personale finalità. Anche con uno scopo da raggiungere costituiscono l’immobilità del mondo. E come sia possibile il movimento delle parti e l’immobilità di tutte nella loro totalità ci viene suggerito ancora dalla natura degli addendi che sono molti, diversi e mobili e la loro somma necessariamente immobile.

Il mondo non può avere finalità che sarebbe un riproporsi (da parte del mondo), quello che le sue parti hanno già proposto per costituirlo. Mi sembra che la finalità delle cose sia la creazione della loro identità, ossia la loro specifica differenza dalle altre. Se le cose non avessero questa finalità e, quindi, nessuna differenza reciproca, il mondo nella sua natura non esisterebbe. Quindi la finalità trascende le cose nel costituire il mondo. Se il mondo raccogliesse la finalità delle cose, distruggerebbe se stesso. La finalità è nel mondo ma non è del mondo. Così si vede con evidenza la necessità di coordinamento logico, ossia finalizzato alla costituzione del mondo, delle parti singole del mondo che le trascenda senza essere loro causa.

Caro Maestro, io credo di vedere che i modi di esistere sono dati da una sola Esigenza e credo sia vero che i modi di esistere dipendano dalla libertà delle cose esistenti.

Infatti senza libertà non sono possibili infiniti modi di essere. Del resto per l’Esigenza dell’esistenza non ha alcun senso imporre una forma di esistenza piuttosto di un’altra. Prima che una qualsiasi forma d’esistenza esista è impossibile una preferenza su un’altra, quindi la libertà è connaturata all’esistenza e ogni predeterminazione del mondo è insensata. Possiamo pensare dunque che l’esistenza ebbe e ha la libertà di darsi da sé una forma, non come una scelta che presupporrebbe l’esistenza di più forme fra le quali scegliere. Il darsi da sé una forma va inteso come un inventarsi da sé la propria forma. In questo solo modo vi è la libertà, poiché la libertà di scegliere fra questa o quella forma è uno scegliere obbligato o a questa o a quella. Libertà originaria e assoluta non è il scegliere, ma il creare la forma e questo naturalmente comporta la contemporaneità della esistenza e di Dio intuito come Esigenza dell’esistenza, come ho già detto. Così la prima cellula nostra antenata prese per sé la sua forma. Non avendo costrizioni, ciò che decise era perfetto in relazione al suo scopo. Decise da sé la sua forma di vita, come già avevano fatto le molecole, gli atomi e le particelle più piccole che la costituivano come parti.

L’evoluzione del modo di esistere porta le prime cellule a costituirsi in organismo e, in seguito, alcune a formarsi un sistema nervoso centrale e alla relativa maniera di esistere.

Fa necessità così che quella che Tu chiami idea di specie di letto è l’idea del riposo genetico associata ad una moltitudine di idee che si riferiscono a tutti i letti avuti nell’esperienza ossia agli strumenti del riposo discesi da una sola Esigenza.

Poi mi sembra di capire che "l’idea" di letto immaginata da Te non solo non ha un rapporto formale con un letto determinato, ma nemmeno con oggetti che pur abbiano per analogia la stessa finalità del riposo genetico.

Miliardi di anni fa le posate per mangiare a tavola non c’erano, perché non necessarie e non richieste per esigenza, e perciò oggi queste posate non possono avere un rapporto di somiglianza o di imitazione formale con una idea della loro "specie" che, discendendo da Dio, come vorresti Tu, dovrebbe esistere da sempre nelle cellule e negli atomi delle molecole nostre antenate.

Così avviene che quella parte del cervello (di una persona) deputata alla memoria delle necessità o esigenze genetiche del riposo, immediatamente interagisce con quella parte del cervello chiamata plastica, deputata alla elaborazione attuale del comportamento finalistico dell’intero organismo, e associa alla forma di un letto la possibilità del soddisfacimento del suo riposo, anche se, quella persona, non ha mai avuto l’idea di letto. Mi sembra che nel possibile utilizzo di un oggetto per necessità si crei per questo oggetto l’idea che Tu chiami di "specie", così ogni oggetto come un letto, è altro dalla sua funzione finalizzata che lo trascende (la certezza che gli oggetti restano trascesi dalla loro finalità è raggiunta quando si vedono oggetti formalmente e funzionalmente diversi avere una finalità identica, come l’orologio e la clessidra). In realtà il letto è formalmente unico. È indipendente da ogni altra forma di letto e perciò indipendente da una idea di "specie". E qui credo ancora si possa capire come sia possibile il rapporto della pluralità degli oggetti determinati con l’unità dell’idea cosiddetta di specie. Si capisce ancora una volta per quale via sia possibile un rapporto dell’"uno" con i "molti", come Ti ho detto.

E allora mi sembra impossibile che il falegname costruisca letti facendo una copia dell’"idea di specie" di letto, perché fra l’"uno" della finalità e i "molti" letti del falegname, come ho visto, non è possibile un rapporto formale. Allo stesso modo nemmeno per il pittore che dipinge un letto è possibile fare copia di un letto fatto dal falegname. Ogni idea e ogni rappresentazione dell’idea ci appare unica e inesistente la dipendenza da un modello anteriore.

Direi allora di tenere per certo che l’idea di "specie" degli oggetti è inesistente e deve lasciare il posto all’idea di forma della finalità, come si è detto, e direi che l’artista dipinge un oggetto come un letto che non "somiglia" formalmente al "letto" fabbricato dal falegname, ma lo rappresenta oggettivamente mediante l’analogia della sua funzione finalizzata riconoscibile dalle esigenze genetiche comuni sia all’artista che al fruitore dell’opera d’arte. La "copia" è quindi impossibile. È impossibile, sia nell’idea che nella concreta forma fisicamente percepibile. Ciò che unisce nella cosiddetta somiglianza forme diverse (ogni forma è assolutamente unica) è la loro comune finalità e utilizzabilità da parte nostra della loro finalità. L’elemento formale unificante è la sintesi degli elementi formali finalizzati da noi, ossia dal nostro progetto. Questo comporta naturalmente l’esclusione dal nostro interesse delle forme dell’oggetto reale non finalizzate da noi e queste le abbiamo sempre chiamate "accidentali" quantunque nell’oggetto occupino lo stesso ruolo di quelle che noi chiamiamo "sostanziali". Le forme utili al nostro progetto le chiamiamo "sostanza". Quelle escluse le chiamiamo "accidenti" ma è chiaro che sia la "sostanza" che gli "accidenti" di un oggetto sono realmente lo stesso. E così può anche succedere che quelli che sono già stati considerati "accidenti" diventino "sostanza" secondo un nuovo nostro interesse progettuale.

Caro Maestro ti confesso che ho fatto fatica nel cercare l’origine dell’idea di "specie" e la sua forma "sostanziale". Per questo mi devi dire se è stata fatica sprecata.

 

E adesso Ti faccio sapere i risultati di un esperimento fatto da Moruzzi: "Capovolgendo la percezione visiva ponendo davanti ad un occhio fin dalla nascita una lente permanentemente che ruoti le immagini di centottanta gradi si ottiene una strutturazione della corteccia occipitale interessata invertita rispetto alla controlaterale" (Vittorino Andreoli La norma e la scelta Mondadori 1984, pag. 25).

Tu capisci allora che una cosa che cade per un occhio con quella lente, sale per l’altro occhio e questo significa che se l’idea di "specie" di oggetto fosse anteriore al vedere l’oggetto, la lente non potrebbe modificare la struttura della corteccia cerebrale deputata alla percezione dell’oggetto e la vista capovolta degli oggetti sarebbe solamente un passeggero disturbo ottico. Come vedi persino le idee, che sono il fondamento e sono gli elementi costitutivi della forma della realtà come la verticalità, l’orizzontalità, la gravità ecc., sono posteriori al percepimento delle linee verticali, orizzontali, ecc., degli oggetti. Queste idee, come hai visto, si formano strutturalmente, quindi oggettivamente, nell’encefalo, su dettato sensoriale nella "zona plastica", quella zona deputata alla conoscenza dei problemi nuovi e quindi alla loro soluzione mediante la libertà progettuale. Ne consegue che la struttura logica del pensiero è stabilita dalla struttura fisica della corteccia cerebrale e questa dal percepimento sensoriale della realtà. Io vedo che la logica del pensiero è dettata dalla logica della natura esterna all’encefalo, o almeno con ragione posso ipotizzare che la razionalità encefalica è armoniosamente simultanea alla logica della natura. Voglio dire con questo che il pensare è oggettivo e i sensi possiedono funzionalità logica e finalistica come il cervello.

 

E però da circa duecento anni i filosofi si sono innamorati di una idea apparente: hanno creduto che "l’idea" della realtà e la realtà non fossero oggettive. Invece Tu più di duemila anni fa avevi fortemente postulato il contrario. Poi Ti racconterò il fattaccio. Ma dopo le ultime scoperte scientifiche possiamo dire che il "soggettivo" si riduce al solo "individuale". L’individuale si distingue dal soggettivo per la sua possibilità di utilizzare personalmente le idee oggettive del suo encefalo plastico.

Il soggettivismo del vecchio mondo moderno invece rinnega la oggettività dell’idea della realtà e pone questo dilemma: o il mondo è posto dal soggetto (posto soggettivamente), o l’individuo è predeterminato e senza libertà.

Ma a me sembra che le idee oggettive non impediscano la libertà dell’individuo che, intervenendo nell’evoluzione del mondo, afferma l’oggettività del mondo e la libertà personale. Le ultime scoperte riaffermano sia la libertà che l’oggettività delle idee. Negano che le condizioni della conoscenza siano immutabili o a priori. Negano che queste condizioni siano comuni per tutti gli individui.

A me sembra che il mio progetto sia nuovo rispetto a quello che i sensi hanno portato al mio cervello. Il mio finalistico e perciò libero perché finalistico intervento sulla realtà, è oggettivo perché ha forza di modificare la precedente realtà oggettiva.

Devi sapere che io faccio il pittore e come Ti ho detto è per questo che alla fine Ti scrivo.

Ti vorrei dire che osservando i processi che mi consentono di dipingere un quadro, vedo che per prima c’è la voglia di dipingere. Questa, direi, risale a quella Esigenza e alla capacità logico-efficiente di cui Ti dicevo. Poi vedo che l’idea della realtà, o memoria encefalica che ho della realtà, mi consente di immaginare mediante la mia libertà la forma dell’opera che vado progettando, secondo un mio scopo che prende forma secondo la mia forma o struttura personale.

Il quadro che farò io, credo, si serve delle idee o memoria degli oggetti della realtà come materia costitutiva, come i mattoni di una casa, e di un impulso o Esigenza di proporre una realtà nuova, come una casa nuova rispondente ad una nuova funzione che non si identifichi negli oggetti della realtà che utilizzo come i mattoni, e di cui ho una idea obbiettiva, ma li trascenda mediante lo scopo che ho di fare il quadro, come una casa. Ma nel farsi, il nuovo quadro non rispetta l’idea progettuale anche se non la capovolge. Nessuna precedente idea di quadro ha mai garantito il quadro che poi ho fatto. Nel farsi, l’opera nuova si fa veramente nuova e quando è compiuta e messa da me nella realtà, vedo che l’idea che l’ha preceduta progettualmente non è realizzata. Nella nuova realtà formale si vede che dall’idea, o memoria della realtà, all’idea progettuale e da questa all’idea della nuova opera i passaggi sono tre. Così l’idea che io mi faccio del nuovo quadro quando è fatto è la terza idea partendo dalla memoria della realtà anteriore al mio personale progetto e posso averla solamente quando il quadro è finito e non prima di incominciarlo, perché prima di incominciarlo è solo progetto, soggetto poi a imprevedibili modifiche durante la sua esecuzione dovute dalla intromissione delle libertà del mondo esterno formalmente diverso dal mio progetto. Così l’"oggettivo" appreso da me consente a me la sua oggettiva evoluzione mediante il mio progetto, anche se non mi consente tutto il mio progetto.

Alcuni teorici cosiddetti moderni pensano che l’opera d’arte, proprio perché procede da una esigenza senza garanzia del risultato, non sia prodotta dal rigore logico dell’artista, ma da irrazionalità intesa come libertà dal rigore della coerenza finalizzata. Come "alogicità", diceva un certo Benedetto Croce. Io direi che è necessario distinguere intanto ciò che è senza rigore logico da ciò che non è razionale: come hai visto anche gli organismi senza encefalo, quindi senza razionalità, si comportano con un rigore logico forse superiore a quello degli organismi con encefalo.

Così io direi che la capacità del soddisfacimento delle esigenze di un organismo, la capacità di una risposta personale adeguata e produttiva alle condizioni esterne all’organismo derivino da una capacità altamente e rigorosamente logica che, prescindendo dalla memorizzazione encefalica, la sostituisce nella sua funzione essenziale. Questa capacità di comportamento logico è posseduta, come Ti ho detto, anche da organismi acefali, quindi non razionali, quindi razionalità e logicità sono entità distinte e però questo rigore logico anteriore alla razionalità encefalica è ciò che qualifica come logica la razionalità encefalica in quanto questa è posteriore a quella, e quella la costituisce nel fondamento. Ed è chiaro allora che può esserci rigore logico senza razionalità, ma non può esserci razionalità senza rigore logico.

Questo rigore logico, o coerenza finalizzata, produce la vita. Infatti dove manchi il rigore logico viene meno la possibilità della sopravvivenza.

Così potrà essere irrazionale solo l’opera di un organismo acefalo e però sempre logica, come si è visto.

Dopo aver distinto la razionalità dalla logicità è utile ricordare, come si è detto, che la razionalità encefalica è la memoria progettuale delle capacità logico efficienti periferiche dell’organismo. E allora la forma dell’arte è al contrario di quanto immaginato dai cosiddetti moderni: per primo altamente logica per essere una proprietà della natura ad ogni livello compreso il subatomico, in secondo luogo è razionale perché è costituita dalla memoria encefalica della logica cellulare periferica. Allora, solo dove sia assente il rigore logico cellulare, sarà assente ogni razionalità encefalica e quindi sarà assente ogni risposta cerebrale emotiva sia nell’artista che nel fruitore della sua opera.

Un esperimento scientifico che conferma la dipendenza di ogni emotività cerebrale dalla logicità cellulare è stato fatto da un gruppo di scienziati su un macaco.

Sono stati sottoposti a registrazione elettrica le reazioni del sistema encefalico, per quantificare le risposte neuronali della scimmia davanti a un disegno (i neuroni della scimmia sono "omologhi" a quelli dell’uomo). All’animale è stato mostrato il disegno di un volto umano visto di fronte. Poi è stato mostrato lo stesso disegno dopo aver cancellato gli occhi. Successivamente il disegno è stato mostrato semplificato con linee naif, come si dice oggi in gergo artistico. Poi l’immagine è stata scomposta e sono state mostrate le parti senza rapporto logico fra di loro, di un disegno simile, oggi si dice che è astratto, non figurativo, cioè senza analogia alle forme genetiche. Le risposte neuronali, partendo dalle più intense per la prima immagine, sono andate via via diminuendo fino quasi a scomparire di fronte alla proposta astratta (Jean Pierre Changeux Ragione e piacere pag. 25 Cortina Ed. 1995). Come Ti ho già detto, Moruzzi ha dimostrato che la struttura cerebrale è dettata dalla struttura delle immagini della natura fornite dai sensi. Quest’altro esperimento dimostra che la sensibilità dell’encefalo è sottoposta a reazione emotiva solo quando le immagini ricevute nell’encefalo sono logiche. Con questo è sperimentalmente accertato che la cosiddetta arte astratta non produce nessuna emotività perché non possiede la logica delle immagini. È accertato che il cervello riconosce solamente la figura logica. Il concetto di forma dunque è tale perché la sua struttura è logico efficiente, voglio dire che la realtà è come la percepiscono i sensi e solo per conseguenza come la pensa l’encefalo. Per questo al di là della forma logica non vi è attività encefalica.

Questa logica dei sensi è visibile in tutta la natura, a cominciare, come hai visto, dagli organismi unicellulari. La logica delle cellule, e per necessità anche delle molecole e degli atomi, ha portato alla costituzione del nostro sistema nervoso centrale, come Ti ho già detto, che risulta essere la struttura finale deputata al coordinamento delle esigenze logiche delle diverse parti dell’organismo. Coordinamento che nella sua funzione noi chiamiamo razionalità, la quale viene meno se vengono meno alla percezione sensoriale le forme logiche. Queste, conservandosi nella memoria encefalica, rendono possibile una razionalità anche a distanza di tempo dalla percezione logico-sensoriale. Questa razionalità a distanza di tempo può sembrare, ma solo sembrare, una entità indipendente dalla percezione logico sensoriale trasmessa dalle cellule nervose al cervello. È sembrata possibile l’esistenza di un intelletto "puro" indipendente dai sensi.

 

E adesso Ti dico per quale motivo ho fatto questa lunga premessa al nocciolo della questione: oggi ci sono dei cosiddetti artisti che hanno abbandonato la forma logica della natura e Ti invocano come antenato perché immaginano che Tu abbia condannato l’arte perché è figurativa, vale a dire, perché è logica.

In realtà questi cosiddetti artisti sono figli di un certo professor Hegel nato a sua volta dai fondamenti di Emanuele Kant, il filosofo ritenuto generalmente il padre di tutta la filosofia moderna e poi Ti dirò il perché. Ti dicevo dunque che quel certo professor Hegel, che Ti ha plagiato servendosi dei Tuoi argomenti esposti nei dialoghi delle "Leggi" e dell’"Ippia maggiore", insegnante fra le tante cose di estetica, disse che l’arte aveva un compito superiore alle sue forze e sarebbe morta per lo sforzo nel gareggiare con la filosofia. Insomma, siccome il professor Hegel si credeva un filosofo, disse che la filosofia era più adatta dell’arte a portare a coscienza i "supremi interessi dello spirito". Al massimo l’arte poteva sopravvivere abbandonando la sua forma. Come vedi è la forma logica della natura l’oggetto del contendere e oggi altri insigni professori sono convinti che la logica della forma della natura non sia la stessa della ragione encefalica, anzi ritengono, come riteneva Hegel, che la "carne" stia tanto in basso da dover essere riscattata dallo "spirito" intendendo per "carne" la logica della natura e per "spirito" ogni bizzarria al limite della demenza prodotta da qualche disfunzione o da qualche lesione encefalica.

Questa trovata dello "spirito" che vince sulla "carne" il falso maestro l’ha copiata e l’ha servita ai suoi allievi come sua.

Questi a loro volta, credendo di fare una buona azione, hanno proclamato che l’arte o muore come voleva il maestro o sopravvive senza essere "copia" della realtà, ossia liberandosi dalla sua "carne" che starebbe tanto in basso. Questa nuova arte puro spirito è chiamata "astratta’ e si realizza come hai capito senza la forma logica della realtà.

L’"artista" arriva alla inaugurazione della sua mostra e dice "l’arte è", ma nessuno vede niente, perché se l’artista mostrasse qualcosa, la purezza spirituale della sua arte verrebbe inquinata. Qualche tempo fa gli ‘artisti’ mostravano delle tele bianche oppure il loro sterco, identificando queste cose nell’oggetto artistico, ma quelli erano ingenui e sono ormai superati dalle ultime spiritualmente purissime trovate. Ora per consolare i presenti alla inaugurazione della mostra della loro arte e per lasciare un segno tangibile che l’arte c’è, ma non si vede con gli occhi della "carne" perché è puro spirito, l’artista ritaglia pezzi di plastica o di stoffa o di carta oppure di preservativi o di pannolini sporchi di mestruazione e li distribuisce ai convenuti che felici vanno al ristorante convinti che finalmente l’arte si è liberata dai suoi "accidenti".

 

Come Ti dicevo è stato Emanuele Kant a dare il fondamento. Questo Kant diceva che le idee della realtà si formano in noi non perché le immagini della realtà modellano il nostro cervello come ha dimostrato Moruzzi, ma perché il nostro cervello modella la realtà per una sua capacità o precostituzione della sua struttura data a priori. Kant ammette implicitamente che le "categorie" del "puro intelletto" sono nel cervello). Devi fare il conto che, secondo Kant, il nostro cervello è come uno stampo, come uno di quelli che in cucina servono per versarci la pasta delle torte e fare così le ciambelle con piacevoli forme: bene, le condizioni a priori sono questi stampi che noi possederemmo al posto di quella parte di cervello plastico che si modella secondo le esperienze sensoriali e che, come Ti ho descritto, si struttura partendo da una condizione amorfa o in potenza energetica ad una struttura. Secondo Kant, ma Kant non poteva pensare quello che possiamo pensare noi oggi grazie alle scoperte della scienza, la forma della natura sarebbe come una pasta di farina, come Ti ho detto, che prende forma solamente se è versata nello stampo. Quindi l’idea della realtà è secondo quel filosofo condizionata dallo stampo che noi possederemmo a priori. La realtà ce la fabbricheremmo noi e fuori di noi non ci sarebbe, o comunque sarebbe senza quella forma che vediamo noi.

Era talmente in buona fede che scrisse così: "Niente di peggio potrebbe succedere a questi [miei] sforzi che se qualcuno facesse l’inattesa scoperta che non vi è in nessun luogo né vi può essere conoscenza a priori" (E. Kant Critica della Ragion Pratica Laterza 1983 pag. 13). Ma qualcuno ha fatto l’inattesa scoperta: è l’evoluzione della specie che, rifiutando ogni immobile conoscenza, rifiuta per conseguenza qualsiasi condizione immobile o a-priori della conoscenza.

L’evoluzione è aperta ad ogni trasformazione dell’individuo e della specie e le categorie ci appaiono come non immobili ma in evoluzione. Le categorie ci appaiono non come condizioni della conoscenza ma condizionate dalla conoscenza come ha dimostrato Moruzzi.

Ben appoggiato da Kant, disse dunque Hegel che lo "spirito", che sarebbe quel qualcosa in lotta contro la "carne", vincerebbe la lotta artistica solamente facendo a meno della forma logica della natura. "Si può sperare che l’arte s’innalzi e si perfezioni sempre più ma la sua forma ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito" (Hegel Estetica Einaudi 1976 pag. 120).

Come vedi questi cosiddetti artisti moderni, sconfessati dalle esperienze scientifiche, sono alla disperata ricerca di punti di appoggio per la loro teoria dell’arte senza forma. Ancora a loro sembra che avendo Tu detto che la forma dell’arte è "copia" della realtà e la forma della realtà "copia" dell’idea di specie, ossia copia della idea data da Dio, ossia unica vera realtà, ritengono che l’arte figurativa sia falsa. Per poter essere "vera" non dovrebbe essere copia della copia della "verità" ossia copia della copia dell’idea "di specie". Ritengono di avere qualche parentela con Te perché hai detto che l’arte non è veritiera. Io vorrei pregarti di chiarire a questi volenterosi la Tua vera posizione rispetto al valore del concetto di "copia" e di verità. Ma visto che questi cosiddetti artisti e i loro esegeti alla fine ce l’hanno con me perché non metto le mie deiezioni in scatola e per questo non darei "l’intuizione dello spirituale", mi permetterei di esporre loro la Tua teoria della "copia" e della "verità" dell’arte, naturalmente con il Tuo meraviglioso testo alla mano. E con il Tuo consenso direi così: Platone alla copia non poteva dare il valore negativo di falso che vuol dire il contrario della verità ma solamente di "remoto alla verità" (Platone Politeia X pag. 476 Rizzoli 1953).

Interpretazione questa che non credo trovi oppositori, perché se avesse detto che l’arte è il contrario della verità, ossia è falsa per il solo fatto d’essere copia della realtà, allora avrebbe detto che anche la realtà è falsa essendo copia dell’idea di "specie".

Non solo, ma Platone dice che le idee di "specie" discendono da Dio che sarebbe il loro autore. E allora: se dalle idee di "specie" per causa di discendenza abbiamo una realtà falsa vorrebbe dire che anche le idee di "specie" sono false, essendo anch’esse sottoposte a discendenza (da Dio). Siccome dal vero non può discendere il falso e dal falso il vero, se le idee di "specie" che discendono da Dio sono false, anche Dio è falso.

Ma questo non è stato detto da Platone, perciò la copia platonica è la rappresentazione parziale della verità Divina. Tutti possono accettare che l’idea prima è remota alla seconda, la seconda alla terza senza pretendere per questo che la seconda e la terza siano false. Quindi l’arte figurativa è l’arte della verità ancorché non si identifichi in quella Divina. Cosa del resto che mai nessuno ha preteso.

Ma leggendo con la mano sul cuore i meravigliosi dialoghi di Platone si capisce bene contro cosa Platone conduce la sua strategica battaglia.

Platone distingue la "capacità tecnica o scientifica" (Platone Lo Ione pag. 90 Rizzoli 1953) ossia "la capacità di agire per uno scopo", dallo scopo, ossia dalla tematica dell’arte. "Questa capacità di agire per uno scopo quando produce solo danno ti pare che sia una bella cosa?" (Platone Ippia maggiore pag. 556 Rizzoli 1953).

"La mimesi con qualche cosa di deteriore s’accompagna e genera quindi prodotti deteriori" (Platone Politeia X pag. 476 Rizzoli 1953). Si vede chiaramente che "mimesi" per sé come tale non è deteriore. Infatti se la tematica dell’arte dicesse il vero sarebbe una bella cosa. "Abbiamo coscienza di subire tutto il fascino della poesia" (Platone Politeia X pag. 482 Rizzoli 1953) e siccome la poesia è la massima accusata e la pittura la segue, si capisce che l’assoluzione tocca entrambe con queste parole "Non piccolo sarà infatti il profitto se poesia apparirà non solo dolce e soave ma anche utile" (Platone Politeia X pag. 438 Rizzoli 1953). E poi vi siete dimenticati o non sapete che "i poeti sono di stirpe divina, afflato divino è in loro; con l’aiuto delle Cariti e delle Muse attingono in molte cose la verità" (Platone Leggi pag. 341 Rizzoli 1953) quindi non dicono il contrario della verità.

E che mimesi come tale non sia colpevole si legge nel libro secondo delle "Leggi". "Se ci è dato sapere che la copia ha avuto per merito di artistica abilità le proprie parti tutte quante e i colori e insieme la giusta figura? Non ne viene la conseguenza che chi sa questo saprà anche se l’opera sia bella oppure in qualche modo deficiente per bellezza?"

"Il criterio infatti di giustezza, come stiamo dicendo, nella mimesi, è appunto questo: se la cosa imitata risulti perfettamente tale e quale l’originale" Platone vuole che mimesi sia perfetta, altrimenti subisce condanna per non essere vera. Avendo Platone detto che l’idea è il primo modello di forma da cui discendono le copie, le copie saranno formali secondo il loro modello e la vostra teoria delle idee senza forma è tirata per i piedi. Questo direi.

Caro Platone volevo chiudere questa lettera, ma mi è venuta una mezza idea: dopo aver precisato che le idee razionali o encefaliche sono due, una che rappresenta la realtà comunicata dai sensi, l’altra che progetta realtà future, mi resi conto, ma Te l’ho già detto, che le cellule nostre antenate e le cellule attuali avevano e hanno una operatività finalistica come quella dell’encefalo.

Questa operatività delle cellule l’abbiamo chiamata capacità logico efficiente, dotata cioè di capacità adattativa utile alla sopravvivenza e dotata della capacità di trasmettere progettualmente notizie all’encefalo.Adesso mi rendo conto che anche queste capacità si svolgono in due tempi consequenzialmente logici: la prima rende edotta la cellula della realtà ad essa anteriore, la seconda la rende efficiente nel trasmettere progettualmente all’encefalo la realtà appresa e insieme attende una disposizione o comando del cervello da eseguire utilmente ossia progettualmente a favore di sé e dell’intero organismo.

Così vedo che anche le singole cellule hanno come l’encefalo razionale due "idee" caratterizzate da due funzioni diverse. Per questo ora io mi aspetterei che Tu dicessi che l’azione logico-efficiente delle cellule è dovuta a due "idee", anche se non sono conservate in una memoria encefalica.Non solo, essendo queste idee costitutive delle idee razionali encefaliche, ed avendo in comune con queste l’Esigenza della loro esistenza, mi aspetterei che Tu dicessi che le capacità logico-efficienti, o idee delle singole cellule, essendo anteriori alle idee razionali encefaliche, sono meno remote alla verità e più vicine a Dio delle idee razionali encefaliche le quali, seguendo l’antica Tua dottrina, dovrebbero essere copia di quelle cellulari. Penso anche che aggiungeresti che le idee razionali o encefaliche essendo formate da notizie comunicate dalle cellule non sono ciambelle formate da uno stampo encefalico precostituito o dato a priori, come dice Emanuele Kant e il mondo cosiddetto moderno che da lui procede.

Preciseresti anche che le idee encefalico-razionali formate dalle idee logico-efficienti cellulari anch’esse secondo finalità progettuale, modificano la realtà con il loro progetto così che la realtà rinnovata dal progetto, essendo ripercepita dalle cellule logico-efficienti e ritrasmessa all’encefalo, concorre alla formazione di un successivo progetto encefalico e così circolarmente ripercepito dalle cellule e ritrasmesso all’encefalo. Così le idee logico-efficienti delle cellule e le idee encefaliche concorrono insieme alla evoluzione della precedente realtà formale.

Chiariresti che è impossibile separare l’idea cellulare da quella encefalica e questa dalla forma dell’esistenza, come dimostra Moruzzi, e che le idee di realtà non sono "copie" della realtà, ma la stessa realtà.

 

Caro Platone, fai sapere a questi innamorati della verità che l’informalismo artistico pretende l’esistenza di una conoscenza indipendente dalla sua fonte. Pretende separare l’idea encefalica dalla sua forma logica fondata dalla libertà delle cellule del nostro organismo, il che mi sembra, al di là di ogni dottrina e alla luce delle moderne scoperte scientifiche, una facezia.

Ti mando vivo ossequio e grazie per i Tuoi "Dialoghi" che sono e sono stati per me, assieme alle notizie cellulari del mio organismo, la ragione della mia ragione.

Tuo

Mario Donizetti

 


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